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venerdì 17 giugno 2011

I guardiani del destino

Quello in cui Matt Demon fugge inseguito da qualcuno è un genere consolidato del cinema americano, alla pari del thriller o della commedia sentimentale. C'è lui che corre puro e idealista e ci sono quelli con il volto di ghiaccio che lo inseguono. E' facile, basta avere i soldi per ingaggiare la star e il film viene da sé. Con I guardiani del destino, uscito oggi nelle sale, l'agente segreto Bourne diventa un politico con il destino segnato e la voglia di affermare la propria libertà d'amare, contro il fantasma della coercizione assoluta (e naturalmente è il libero arbitrio a trionfare, salvo accettare quel tanto di inesplicabilità divina che fa tornare in auge il concetto manzoniano di provvidenza...). Il film è piccolo piccolo, ha il respiro corto e forse non abbastanza soldi per essere spettacolare come vorrebbe, ma ha cose decisamente interessanti. Ad esempio la solita ma sempre affascinante atmosfera alla Philip K. Dick, con l'innesto della fantascienza in una dimensione realistica; o il ricorso a una tecnologia sempre più naturalizzata, con la creazione di quaderni così tecnologici da respirare di vita propria (dei veri e propri iPad, insomma); o ancora la riflessione sullo spazio della metropoli come luogo principe dell'immaginario contemporaneo. Come un'emanazione minore di Inception, I guardiani del destino trasforma infatti New York in un campo aperto, uno spazio fluido e comunicante reso tale dall'iconografia della città. I suoi spazi riconosciuti e riconoscibili - la Statua della libertà, il MoMA, i docks di Brooklyn, lo stadio dei Metz - sono i luoghi della fuga e si susseguono l'uno all'altro fornendo al protagonista i vari passaggi verso la liberazione. Non dico come tutto ciò avvenga, ché è la cosa migliore del film, ma il modo in cui I guardiani del destino crea il proprio spazio, la libertà espressiva con cui attraversa e ripensa New York riprova quanto il cinema contemporaneo cerchi una via espressiva soprattutto dialogando con l'immaginario degli spettatori e con la loro conoscenza pregressa di icone, miti e memorie. Il discorso diretto tra film e spettatore non esiste più da decenni e oggi si articola di rimandi, riferimenti, citazioni, sogni dentro sogni dentro altri sogni, oppure vite imprigionate guidate da volontà esterne. Niente è più per caso, o per semplice voglia di raccontare, tutto è una re-visione, un percorso già tracciato. E film come I guardiani del destino non fanno altro che riflettere il nostro famigrato Zeitgest.

lunedì 28 febbraio 2011

Intendiamoci...

Due parole due sulla notte degli Oscar, già per altro previste in questo post (non perché io sia un figo, ma perché l'esito di quest'anno era particolarmente scontato). La vittoria a mani basse del Discoro del re è non solo la dimostrazione che quelli dell'Academy notoriamente non capiscono un tubo di cinema, ma soprattutto capiscono solo il cinema che hanno in testa, quello predisposto per premi come questo, acquietato e borghese, per signore e per spettatori con un'idea blanda di opera d'arte, popolare e lussuosa. Intendiamoci, non c'è nulla di male nel film di Tom Hooper, ma ce n'è nella regia su commissione di costui, nel fatto che abbia vinto contro Nolan e i Coen, e pure contro gente non proprio perfetta come Fincher, Aronofsky o O'Russell, ma sicuramente interessante e imprevedibile. Intendiomoci ancora, del premio Oscar importa ormai poco, ma premiare Il discorso del re significa chiudere la porta a quella costante opera di revisione che il cinema americano compie su stesso e che dalla fine del periodo classico rappresenta la sua vera grandezza: non solo in Inception o in Il grinta, ma pure nel Cigno nero, che è un film pieno di difetti e ingenuità, in The Fighter, che è un'opera potente per quanto assolutoria, e soprattutto in The Social Network, che è il film più attuale e urgente di tutti quelli candidati a un premio. Il discorso del re è cinema d'alta qualità che mette tutti d'accordo: proprio per questo motivo non dovrebbe avere bisogno di un Oscar. E proprio per questo ne ha vinti almeno quattro immeritati.

giovedì 27 gennaio 2011

Il discorso del re

Esce domani Il discorso del re di Tom Hooper, il film che solo l'altro giorno ha raccolto una gragnuola di nominations agli Oscar e nel settembre scorso ha vinto il Festival di Toronto. Come si diceva qui, è un classico prodotto di questa parte della stagione, fatto apposta per l'Oscar appunto, borghese e ben educato, recitato da dio (e in questo caso il doppiaggio è da criminali, perché è un vero piacere ascoltare l'inglese di Firth e Rush) e diretto dall'anonimo regista con piglio da primo della classe che lavora per il padrone. E' un film che non fa male a nessuno, salvo spacciare per buono e giusto il diritto di ogni re a guadagnarsi la propria regalità, come se la regalità fosse un valore e non un privilegio toccato in sorte a pochi fortunati. Di contro, però, bisogna ammettere che il discorso di Giorgio V sul mestiere di re nell'era della comunicazione di massa non è affatto male, con la radio che alla vigilia della Seconda guerra mondiale ha portato la democrazia nelle case e costretto i regali a fare qualcosa in più di starsene con la schiena diritta a cavallo: li ha costretti, cioè, a invadere il quotidiano di ogni individuo, a lisciar il pelo al popolo per conquistarsi la fiducia, diventando così la "più abietta delle figure sociali", dice il re, l'attore.

giovedì 13 gennaio 2011

L'autore annientato e poi rinato

Domenica verranno assegnati i Golden Globe, i premi della critica americana che arrivano prima degli Oscar e spesso ne anticipano i risultati. I cinque film candidati per il 2010 sono Black Swan di Daren Aronofsky, The Fighter di David O. Russell, Inception di Christopher Nolan, The Social Network di David Fincher e Il discorso del re di Tom Hooper, che probabilmente faranno parte anche della cinquina di nominati tra un mese e mezzo. Tra questi, l'unico che ha la struttura adulta, elegante e per signore che un tempo andava forte in questo periodo dell'anno e contava spettacoloni borghesi come Voglia di tenerezzaLa mia AfricaIl paziente inglese e ultimamente Revolutionary Road (al cinema non esiste quasi più, ma in tv c'è eccome, da Desperate Housewife a Mad Men), è Il discorso del re, un drammone storico-politico come si fanno in Inghilterra dopo il successo di The Queen e che parla dell'interessantissima questione della balbuzie di Giorgio VI. Gli altri quattro titoli, invece, sono film atipici, diretti non da un comprimario come Hooper, che ha il pregio di essere inglese e non rompere le balle, ma da altrettanti registi in pista da un sacco di anni e solo ora, scordata in parte o ridiscussa l'autorialità degli esordi, hanno cominciato a farsi strada nelle maglie di Hollywood.

martedì 5 ottobre 2010

Ecco perché penso che Inception sia un grande film

Nel weekend mi sono fermato un attimo e ho buttato giù un po’ di idee su Inception, il film di Nolan che sta fecendo discutere il pubblico e la critica italiani (un altro esempio qui). Il pezzo per intero comparirà sul prossimo numero di Cineforum, mentre qui ne metto solo una parte, dove tra l'altro si parla anche dell'immagine che sta qui sopra, come testata del blog. Per chi scrive, Inception è un grande film, non necessariamente un capolavoro o un film perfetto: è una riflessione per nulla filosofica o teorica, ma puramente cinematografica, materialmente cinematografica, sulla natura del cinema americano classico, sulle ragioni pratiche e psicologiche che portano quel tipo di narrazione a raccontare ogni volta la stessa cosa (il trauma della perdita e la disunione della coppia) e mettere in scena sempre lo stesso repertorio iconografico e simbolico (la casa unifamiliare). Nell'altra pagina, se vi va.

mercoledì 29 settembre 2010

Il caso Inception

Con mia grande sorpresa Inception di Nolan, che io considero senza indecisioni uno dei film più sorprendenti di questi anni (se non questa roba, cos'altro?) e che pensavo potesse piacere a chiunque ami il cinema, sta spaccando in due la critica e in generale, da quello che mi sembra di capire, la maggioranza propende per il no. Qui per esempio si può leggerne una critica negativa (per me di valore pressoché nullo) e qui un dibattito decisamente più interessante. In ogni caso, al di là delle argomentazioni di ciascuno, non ci posso davvero credere, tanto il film è ricco di idee, basilare nel mondo in cui scava per arrivare all'origine di ogni racconto possibile da parte del cinema americano: per me è esemplare, la teorizzazione più chiara e folgorante sulla natura del cinema nella cultura del '900 (dalle rose di Gertrud Stein ai correlativi oggettivi di cui il cinema classico hollywoodiano è pieno). Prima o poi mi fermo, ci penso su e a costo di rompere le palle ne scrivo a lungo. Prima di allora, nel weekend ad Alessandria, in Piemonte, durante un bel festival della critica cinematografica che si chiama Ring, due critici di cui ho grande stima dibatteranno e magari litigheranno su Inception: Bruno Fornara per il no (ahimé) e Luca Malavasi per il sì. Per chi potesse andarci (io purtroppo non potrò) e per chi avesse a cuore queste cose (un po' di nicchia, lo ammetto), ne varrà sicuramente la pena.

venerdì 24 settembre 2010

Un sogno è un sogno è un sogno è un sogno

Oggi esce nelle sale Inception di Christopher Nolan, di cui si parla da tempo e che ci vede ultimi tra i paesi distribuori: un bel primato, non c'è che dire, visto che si tratta senza dubbio di uno dei film dell'anno e la conferma, come dicevo qui, che Nolan è l'unico vero autore hollywoodiano di oggi, uno, come Spielberg anni fa, che facendo guadagnare alle major palate di soldi con i film su commissione (i due Batman, per altro le sue cose meno belle), è arrivato al punto di fare quel che gli pare. Inception è un incredibile viaggio nei sogni che da un sogno porta a un altro sogno e poi a un altro sogno e a un altro ancora... Raccontarne la trama è quasi impossibile, tanti sono i livelli ce si accavallano e incrociano l'uno sull'altro; come in un sogno relativista il tempo è una traiettoria manipolabile e lo spazio si piega letteralmente alla forza della mente. Al fondo di ogni cosa, come sempre nel cinema americano, e in modo stupefacente in questo film, che è un progressivo discendere al cuore di ogni narrazione, il risultato è un luogo chiuso, familiare, dove ritrovarsi soli con se stessi e dove il cinema, come in Lynch, sta racchiuso in un piccolo oggetto e al tempo stesso si disperde, ancora come in Lynch, nell'eterno riflesso di uno specchio che si specchia in un altro specchio e poi in un altro specchio ancora, e ancora ancora ancora...