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sabato 26 maggio 2012

Realtà asimmetrica

Domani Cannes finisce, io sono tornato a casa ieri sera e in mattinata ho fatto in tempo a vedere Cosmopolis (che contemporaneamente è uscito anche nelle sale italiane). Una visione scioccante, perché ammetto che mi aspettavo qualcosa di esplosivo, alla maniera del Cronenberg che tutti abbiamo in testa (e che forse sarebbe ora di ridiscutere), quello cioè delle mutazioni e delle interazioni con la tecnologia. Negli ultimi anni, invece, almeno a partire dalla Promessa dell'assassino, il cinema di Cronenberg è diventato un'operazione lucidissima - anche nella superficie dell'immagine digitale - sui meccanismi del linguaggio e del coinvolgimento emotivo, sul rapporto tra l'anima e la realtà e sull'automazione delle emozioni. A pensarci bene, già Crash esprimeva tutto questo, ma a quasi vent'anni di distanza  Cosmopolis non vede più nella macchina una presenza dialettica, un essere metallico con cui fondersi, ma una totalità che ci circonda e che ha preso il sopravvento. La realtà sta solamente al di fuori dei finestrini di una limousine, la percezione è un movimento ondulato, vibrante eppure immobile come i blocchi monocromi, piatti eppure profondissimi, dei quadri di Rothko. E Rothko infatti è citato nel film e soprattutto compare nei titoli di coda dopo che in quelli di testa la tela ocra dello schermo - alla maniera di Spider - si era poco alla volta riempita di color dripping alla Pollock. E nel passaggio dall'espressionismo astratto di quest'ultimo allo spiritualismo cromatico di Rothko è racchiusa l'evoluzione del cinema di Cronenberg, ormai spostatosi dalla fisicità all'immobilità, dal corpo alla parola. E in Cosmopolis c'è la parola di De Lillo (che in italiano è stata tradotta da Silvia Pareschi), che è bianca, pervasiva, silenziosa, unica: Cronenberg ne restituisce la potenza abbagliante con una messinscena raggelata, con un'atmosfera né sospesa né minacciosa, ma semplicemente asettica. Manhattan è oltre il finestrino, la realtà è uno sguardo oltre il vetro, c'è ma il capitalismo (anzi, lo spettro del capitalismo) l'ha trasformata in un sistema di apparenze e di strutture invisibili. Il denaro domina, soffoca, distrugge (anche il cinema, forse), e solo l'asimmetria di una prostata, di un movimento finanziario inatteso, di un ratto di fogna trasformato in unità di misura, può metterlo in discussione, può scardinare un sistema condannato dalla propria perfezione.

lunedì 19 dicembre 2011

Philip Roth e il cinema d'autore

Sulla Repubblica di oggi Antonio Monda intervista Philip Roth, e per quanto il pezzo sembri piuttosto una conversazione tra conoscenti che non un servizio ai lettori, con Monda che si limita a chiedere a Roth cosa abbia letto o visto ultimamente, emergono un paio di cose interessanti. Ad esempio, la segnalazione dell'anticipazione sul New Yorker di un racconto che farà parte della nuova raccolta di Nathan Englander, What We Talk About When We Talk About Anne Frank (il link è qui, ma bisogna essere abbonati per leggerlo); oppure il fatto che Roth veda un sacco di film, e in questo momento li preferisca ai romanzi. Il fatto non sembra degno di nota, ma in realtà lo è, essendo raro trovare artisti, intellettuali o addirittura registi, che siano consumatori di cinema e conoscitori della produzione d'autore. Mai visto, infatti, gente così poco informata sul cinema come i tanti giovani registi conosciuti in questi anni di frequentazioni festivaliere. Se sono americani, poi, e hanno fatto la scuola di cinema, citano Antonioni e Tarkovskij come esempi di avanguardia pura, al massimo si spingono fino a Kenneth Anger o Lynch, e sembrano farsi bastare la cosa. Per cui, insomma, sapere, ad esempio che De Lillo ami il cinema di Eugène Green, o che, come avevo letto tempo fa, lo stesso Roth abbia amato il penultimo film di Assayas L'heure d'été, che in Italia non è nemmeno arrivato, o che al momento stia vedendo i film di Susanne Bier perché lei gli ha chiesto i diritti di Nemesis, mi lascia sorpreso. Poi, certo, uno potrebbe spiegare a Roth che la Bier è una regista mediocre, e che è meglio non si faccia troppe illusioni sul film che ne verrà fuori, giusto un pizzico migliore di La macchina umana o Elegy, ma non si può avere tutto. L'importante è che la cosa non degeneri e finisca poi come con Bret Easton Ellis, che su Twitter blatera continuamente di cinema con lo stile stupidamente provocatorio di chi pensa di essere fico perché ama la roba commerciale e disdegna Alexander Payne...

lunedì 23 agosto 2010

Pile di libri

Negli Stati Uniti è uscito Freedom, l'ultimo romanzo di Jonathan Frenzen. Come per Sufjan Stevens, anche questo è un nuovo lavoro dopo anni di silenzio artistico. Che poi silenzio non è proprio la parola giusta, visto che Frenzen probabilmente detiene il record mondiale di frasi promozionali sulle copertine dei romanzi degli altri: un lavoro che, stando a quanto scrive Ellis in Lunar Park, viene strapagato. Solo negli ultimi mesi l'ho trovato sui libri di Haslett, Munro e Johnson: peccato per lui che non ami Roth, altrimenti avrebbe almeno una copertina all'anno. In ogni caso, i quotidiani americani ne hanno scritto benissimo (qui Il post fa un sunto dell'entusiasmo critico), facendo dire a tutti che l'autore di Le correzioni è tornato dopo il suo capolavoro del 2001 (che poi capolavoro non è proprio la parola giusta...). Il libro comunque esce a gennaio da Einaudi e lo traduce Silvia Pareschi.