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mercoledì 21 dicembre 2011

Voyeur con le ali

L'altro giorno, commentando questa intervista a Philip Roth, ho citato di sfuggita Nathan Englander. Ho così ripensato alla sua prima raccolta di racconti, Per alleviare insopportabili impulsi, suo tempo diventata per me una specie di manualetto di sopravvivenza (anche e soprattutto per i suoi passaggi più comici), e poi mi è venuto in mente un passaggio del suo per ora unico romanzo, Il ministero dei casi speciali. Ci ho pensato dopo aver letto questa cosa di Christopher Hitchens a proposito della morte e dell'aldilà, mi ricordavo che sintetizzava in una paginetta il rapporto sofferente e sotto sotto ridicolo tra l'uomo e l'idea della religione in gran parte della letteratura americana (ebraica, certo). Ho preso il libro in mano e per due giorni l'ho sfogliato, senza trovare il passaggio. Oggi finalmente l'ho trovato. E anche se c'entra poco con questo blog, lo metto qui. (La traduzione è di Silvia Pareschi, della quale segnalo il bel blog Nine Hours of Separation).
Queste sono le cose per cui Kaddish non pregò: non pregò per ottenere un permesso o un consiglio, per ricevere aiuto o perdono, non chiese un segno o una parola di conforto, non supplicò a nome di qualcun altro. E anche se si rivolse a un Dio ultraterreno, non desiderò di incontrarlo in paradiso. Perché anche nelle deboli fantasia umane si prova vergogna, ci si sente continuamente osservati da schiere di occhi, come se fosse impossibile avere un po' di intimità; come se entrando in paradiso non si ottenesse una maggiore saggezza, una visione d'insieme, una più ampia comprensione; come se ogni movimento di ogni creatura terrestre venisse eternamente osservato da ogni madre morta e da ogni figlio morto.

lunedì 19 dicembre 2011

Philip Roth e il cinema d'autore

Sulla Repubblica di oggi Antonio Monda intervista Philip Roth, e per quanto il pezzo sembri piuttosto una conversazione tra conoscenti che non un servizio ai lettori, con Monda che si limita a chiedere a Roth cosa abbia letto o visto ultimamente, emergono un paio di cose interessanti. Ad esempio, la segnalazione dell'anticipazione sul New Yorker di un racconto che farà parte della nuova raccolta di Nathan Englander, What We Talk About When We Talk About Anne Frank (il link è qui, ma bisogna essere abbonati per leggerlo); oppure il fatto che Roth veda un sacco di film, e in questo momento li preferisca ai romanzi. Il fatto non sembra degno di nota, ma in realtà lo è, essendo raro trovare artisti, intellettuali o addirittura registi, che siano consumatori di cinema e conoscitori della produzione d'autore. Mai visto, infatti, gente così poco informata sul cinema come i tanti giovani registi conosciuti in questi anni di frequentazioni festivaliere. Se sono americani, poi, e hanno fatto la scuola di cinema, citano Antonioni e Tarkovskij come esempi di avanguardia pura, al massimo si spingono fino a Kenneth Anger o Lynch, e sembrano farsi bastare la cosa. Per cui, insomma, sapere, ad esempio che De Lillo ami il cinema di Eugène Green, o che, come avevo letto tempo fa, lo stesso Roth abbia amato il penultimo film di Assayas L'heure d'été, che in Italia non è nemmeno arrivato, o che al momento stia vedendo i film di Susanne Bier perché lei gli ha chiesto i diritti di Nemesis, mi lascia sorpreso. Poi, certo, uno potrebbe spiegare a Roth che la Bier è una regista mediocre, e che è meglio non si faccia troppe illusioni sul film che ne verrà fuori, giusto un pizzico migliore di La macchina umana o Elegy, ma non si può avere tutto. L'importante è che la cosa non degeneri e finisca poi come con Bret Easton Ellis, che su Twitter blatera continuamente di cinema con lo stile stupidamente provocatorio di chi pensa di essere fico perché ama la roba commerciale e disdegna Alexander Payne...