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lunedì 28 maggio 2012
L'io, Il noi e New York
Nei giorni passati mi sono dimenticato di segnalare l'uscita su Doppiozero di un mio pezzo dedicato al cinema, la memoria e lo spazio americano (per la precisione lo spazio di New York). Una cosa che mi frulla in testa da tempo e alla quale un anno fa ho dedicato due pezzi su Minima et moralia (li trovate qui e qui). Il progetto vorrebbe e dovrebbe svilupparsi in qualcosa di più ampio, magari un saggio o un libro, ma per il momento ho partorito solamente il pezzo in questione. Si parla di cose che mi piacciono, tipo De Niro che cammina per Times Square in Taxi Driver o l'incubo metropolitano di Fuori orario, e di cose che non mi piacciono, tipo l'ultimo Sorrentino o Shame, che però trovo significative. Si parla soprattutto del fascino che esercita lo spazio di New York, messo in scena dai '60 in poi come uno scenario di frontiera, e su quanto lo sguardo innamorato dello spettatore funzioni da intermediario con le emozioni (o l'assenza di emozioni) dei personaggi. A Cannes, poi, è passato The We and the I di Michel Gondry, film completamente girato all'interno di un autobus scolastico che attraversa il Bronx, e lì, non diversamente dalla Manhattan di Cosmopolis, ho visto una città rivelarsi attraverso i finestrini e mostrarsi in quanto scenario noto di luoghi e facce sempre nuove eppure familiari. Nonostante il degrado, il cemento, la monotonia, ho avuto per l'ennesima volta la percezione di una città unica e irripetibile, bellissima e oscena, il primo e ultimo luogo in cui specchiarsi e osservarsi tra fascinazione, alienazione e disgusto. Cronenberg, oltre il finestrino della sua limo, mette in scena la monocromia del denaro, Gondry invece, con le liti, gli scherzi e gli amori dei suoi adolescenti, la libertà effimera del cazzeggio, entrambi in film fatti di parole e di movimenti a vuoto che conducono e ripetono il nulla. Se non altro so da dove ripartire per portare avanti il lavoro.
giovedì 24 maggio 2012
Io sono io e faccio quel che mi va
Carlos Reygadas e' il piu' grande spreco di talento del cinema contemporaneo. Cazzo se ne frega, direte voi. E c'avreste pure ragione. Ma se ti trovi qui, a vedere sei film al giorno e a un certo punto ne vedi uno che comincia con una scena pazzesca, in cui una bambina vaga sola in un campo pieno di mucche e cani e oltre le colline, nel cielo tumultuoso, si preannuncia con fulmini e tuoni un temporale apocalittico, e la bambina chiama mamma e si abbandona impaurita allo sguardo della macchina da presa, a ricordarci che in ogni caso, con o senza mamma e papa' al fianco, siamo soli in terra e pure che il cinema non fa altro che mettere delle persone in uno spazio e dare vita a quello stesso spazio, e poi nel resto del film vedi solamente un'esibizione altezzosa, vuota, pretestuosa, provocatoria di un regista che si crede giustificato dal proprio ermetismo, certo di non dover spiegare un tubo delle sue scelte tanto sono Reygadas e faccio il cazzo che mi pare e voi al massimo provate a decifrare il mio film come si fa con un rebus, allora, dicevo, alla fine di un film che inizia con il botto e fa sperare in bene, girano le palle. E di brutto. E Post Tenebras Lux, con i suoi diavoli in digitale, le sue scene di orgie nelle saune, i suoi andirivieni temporali a confondere le acque, le domande che genera su chi sia chi e se questo stia ancora qui o da un'altra parte, se il padre e' morto o vivo, se chi (forse) lo ha ucciso semplicemente riviva in differita la sua stessa vita, con la medesima famiglia ma piu' povera e in generale se la cornice demoniaca sia l'ennesimo simbolo di questi tempi malati, tenebra che attende la luce, con tutto questo ammasso di domande senza risposta, di risposte senza domande, con tutta queste linee e frammenti in una cornice tutto sommato comprensibile, diventa una confezione vuota, un cazzo e' sta roba, un film che vive degli stessi dubbi che genera e che alla fine corre il rischio di essere svelato da qualche spettatore per scoprire che sotto non c'e' nulla. Come la storia dei piselli fagioli della Carra': indovinare quanti ce n'erano nella boccia di vetro era impossibile. Salvo per una possibilita'. Chi ci riusciva vinceva dei soldi, ovvio, ma alla fine restano pur sempre dei piselli fagioli in un boccia di vetro.
lunedì 21 maggio 2012
Due cose
Proprio non ce la faccio a stare dietro ai film e al blog. Pero', al volo, due cose sui film visti fino a ora. Il film piu' sorprendente, cioe' che non ti aspetti e finisce per conquistarti, e' Rengaine: un'ora e un quarto di cinema fisico e pieno di parole, drammatico e divertente, pieno di idee e di corpi che si ammassano, ma non soffocano mai lo sguardo. Un cinema vivo, necessario, divertito e per questo leggero, alla Cassavetes, dunque gia' visto mille volte, eppure fresco e fantasioso. Nella fretta del passaggio tra un film e l'altro mi ha fatto riflettere quanto certe forme e certe estetiche non passino mai o forse approfittano del fatto che il nostro sguardo non muta mai. Il regista Rachid Djaïdani a occhio deve avere poco piu' di vent'anni e sembra un tamarro delle banlieu a cui il cinema ha salvato la vita. Per questo il suo film sembra necessario. Un altro lavoro di grande spessore, e qui siamo su livelli spaventosamente piu' alti per ambizione e produzione, e' Amour di Haneke, che forse e' il solo film ad aver messo tutti d'accordo qui a Cannes: e' un film intenso e freddo al tempo stesso, dunque, una bomba emotiva, con Trintignant e la Riva che danno l'idea di cosa possa essere una relazione d'amore che resiste a tutto, che vive di piccole cose e non si ferma di fronte alle grandi. Il massimo dell'amore e' anche il massimo della dedizione, fino a un punto estremo. Il cinema di Haneke e' sempre li', matematico e rigoroso, e dunque puo' lasciare indifferenti. Ma la materia questa volta e' cosi' intensa che tutto crolla e dalle macerie esce un film a cuore aperto. Con una delle scene oniriche piu' belle che io abbia mai visto.
sabato 19 maggio 2012
Realta' e reality
Ieri non sono riuscito a scrivere, non ne ho avuto il tempo. Oggi invece ce la faccio, e inizialmente avrei voluto parlare dei film di Gondry e di quello di Garrone, il primo visto giovedi' e il secondo presentato in concorso ieri. Poi stamattina, dopo la visione del pessimo Lawless di John Hillcoat (Nick Cave forse dovrebbe piantala con sta mania di fare lo sceneggiatore) ho saputo della sconvolgente notizia dell'attentato di Brindisi. E nell'incredulita' della cosa ho pensato solo piu' al film di Garrone, non tanto alle sue qualita' e ai suoi difetti, ma al presupposto di una realta' immaginaria che prende il sopravvento sulla realta' dei fatti, arrivando a essere l'unica lente con cui interpretiamo, meglio osserviamo, il nostro tempo. Siamo sicuri di tutto questo? Siamo certi che la tv si sostituisca alla verita' della morte e dell'assurdo? Siamo certi che quello che e' successo a Brindisi non sia altro che morte e omicidio e per una volta non c'entrino l'immaginazione, l'immaginario, l'indeterminatezza, l'apparenza. Reality di Garrone va bene, per carita': ribalta la realta', e dunque la interpreta, alla maniera di Pirandello. Ma anche solo per una tragica concomitanza di fatti, di fronte a quello che e' successo in Italia contemporaneamente all'ubriacutura da visibilita' e surrealta', sparisce come neve al sole. Che ne e' insomma di un film dopo Brindisi, dopo la riscoperta scioccante di un mondo tangibile e non visibile, di una follia omicida e non
grottesca, di una realtà immutabile che supera la finzione del reality, lasciando al pur volenteroso Garrone lo scacco di una voce flebile e inutile.
giovedì 17 maggio 2012
Quasi amanti
De rouille et d'os, il nuovo film di Jacques Audiard presentato questa mattina in concorso, e' la versione seria e complessa di Quasi amici. Chissa' se i francesi, per i quali il film con Cluzet e' stato uno dei fenomeni dell'anno, se ne accorgeranno. Forse no, perche' per forma e ambizione i due film sono all'opposto, ma in fin dei conti ci sono gli stessi personaggi, le stesse dinamiche relazionali, lo stesso prevalere della fisicita' e dell'animalita' sulla ragione. In entrambi i film c'e' un handicappato (qui una donna) e un uomo rozzo, immediato e salvifico perche' autentico, a prendersene cura; ce' l'idea del legame fisico che viene prima di quello spirituale, in un curioso ribaltamento emotivo del recente romanticismo cinematografico: come se degli amori che nascono tra anime belle non sapessimo piu' che farcene, mentre preferiamo vedere anime alla deriva che per natura o sfiga sono ridotte allo stato animale e arrivano poco per volta ad amarsi. Cosi' alla fine e' l'amore a restare intatto, fuori dallo schermo e dalla sporicizia che le immagini lasciano dietro di se'. Naturalmente quello di Audiard e' un film sul corpo, sulla menomazione che non indietreggia di fronte all'impudicizia dello sguardo: e il discorso sul sesso, la box, la violenza corporea e, a lato, sullo sguardo che ruba segreti e viola la dignita' delle persona, e' certamente la cosa piu' intrigante del film. Un film che funziona, figuriamoci, che pero' riporta il cinema del suo regista un passo indietro rispetto al genere dal capolavoro Il profeta (lo ammetto, prima di allora lo consideravo uno qualsiasi, Audiard, oggi invece, dopo quel film incredibile, mi aspettavo parecchio). Qui siamo nel terreno del melodramma fichetto, delle immagini contrastate, della musica indie a dettare l'umore malinconico (all'inizio e alla fine c'e' Bon Iver), di una ricercatezza visiva un po' fastidiosa. E pure la storia, in certi momenti secca e spiritosa, ma in altri decisamente ricattatoria, sembra riprendere l'incertezza generale di un film che ha ottime cose, che non molla mai la presa nonostante la trama risaputa, ma che in fondo non trova nel melodramma quello che Audiard aveva trovato nel film carcerario: il grande respiro del cinema popolare.
mercoledì 16 maggio 2012
Appunti per un pezzo da scrivere su Moonrise Kingdom
Non si puo' (scusate gli accenti mancanti e date la colpa alle tastiere francesi) scrivere di un film come Moonrise Kingdom dopo averlo visto da appena venti minuti. Potrei aspettare un po' e pensarci su, ma non ho tempo. Per cui butto giu' le cose che ho pensato durante il film, come appunti di un pezzo che magari scrivero'.
Moonrise Kingdom e' quello che ho sempre pensato del cinema di Anderson: la nuova puntata di una serie sempre uguale a se stessa. Come i Simpson, per dire, o i Peantus, dove i personaggi non invecchiano mai e ogni volta tutto ricomincia da capo. E' ovvio, ma e' cosi'. I suoi film sono variazioni bloccate sullo stesso tema, pezzi unici che compongono una sinfonia orchestrale. Sara' un caso che
Moonrise Kingdom comincia con un'aria di Purcell (notizia: non c'e' quasi rock, in questo film, solo musica sinfonica) e la voce fuori campo di un bambino spiega come gli strumenti suonino prima da soli e poi tutti insieme? Non credo.
Moonrise Kingdom e' il film sulla famiglia sfaldata che si riforma da se', che non si conferma nonostante tutto, come succedeva nei Tenenbaum, ma si ricrea e reinventa. Certo, tutto alla fine si sistema, come sempre, ma e' come una spirale che continua a girare, ma su un piano diverso, ulteriore. Qualcosa, per quanto impercettibilmente, cambia. Forse perche' e' per la prima volta che i protagonisti non sono adulti mai cresciuti, ma bambini maturi come adulti. L'alterita', tema chiava del cinema di Anderson, sta nel negare al mondo degli adulti quei sentimenti - l'amore, la responsabilita', la liberta'- che gli sono riconosciuti. E' un film di liberazione e capovolgimento, con il solito, per me sempre folgorante, sguardo frontale che ruota su stesso, che spezza la bidemensionalita' del quadro e si apre alla profondita', che addirittura - come succede nella prima, simbolica sequenza - sfonda la quarta parete e la porta direttamente nel film. Non ricordo sia mai successo nel cinema di Anderson. Un'altra cosa inedita, naturale e innovativa
al tempo stesso , e' il rimando iconografico di molte inquadrature: se il modello resta il fumetto, questa volta Anderson va oltre, inserendo le sue figurine dentro (finte) miniature medievali e soprattutto riportando la frontalita' comunque esibita del suo cinema alle sue ovvie origini (e anche qui non ci avevo mai pensato, ma era evidente da sempre): il muto. Non pero' in chiave vintage, ma in modo assolutamente personale, con figure di personaggi che danzano sulla pellicola come le ombre di Papageno e Papagena nel film di Lotte Reiniger. E poi c'e' il cinema degli anni '60, periodo in cui e' ambientato il film, c'e' l'eterna adolescenza di un paese, l'America, che non accetta di essera maturo, di pensarsi vecchio e dunque fallito, c'e' un'isola selvaggia, due ragazzi che fuggono e vivono del loro amore, e dunque c'e' Monica e il desiderio, evocato nel momento piu' bello, quando i due giovani amanti passano la loro unica notte insieme e si amano di conoscenza e passione innocente, con i soliti libri inventati di Anderson, le copertine fantasiose e verissime, il mondo interiore che si apre all'altro e lo sguardo inqueito di una ragazzina innamorata che racchiude decenni di dolore e voglia di sfogarlo. E poi il desiderio tutto cinematografico di trovare un posto dove stare, nominarlo del proprio nome e li' racchiudere l'amore come in uno scrigno. Monrise Kingdom e' tutto questo, e credo anche parecchie cose in piu'.
martedì 15 maggio 2012
Le cronache da Cannes e le cronache dei supereroi
Domani inizia il Festival di Cannes e io sarò lì. Spero di avere più di tempo per scrivere di quanto ne abbia avuto negli ultimi giorni, magari per postare un pezzo al giorno. A dire il vero, è un po' che penso al fatto che le cronache dai festival, diventate un'abitudine di molti grazie a Facebook e Twitter, non sono un gran servizio per i lettori: dire se sono belli o brutti film che quasi nessuno potrà vedere o che al massimo arriveranno in sala a partire dall'autunno (in uscita immediata al momento c'è solo Cosmopolis di Cronenberg) è tanto inutile quanto, un pochino, da stronzi. Come a dire: celebrate il mio privilegio di possedere un accredito stampa e immaginatevi il film in base alle mie parole. Sono cronache del vuoto. Come, a pensarci bene, quelle del film, per l'appunto, Chronicle, uscito lo scorso venerdì e rivelatosi una delle cose più intelligenti viste negli ultimi tempi. A rigor di logica è anche in questo caso inutile e ridondante (ragazzini, fantasy, superpoteri), ma il regista e lo sceneggiatore ripensano in modo sorprendente il cinema in diretta, con la videocamera sempre accesa di uno dei protagonisti - e saltuariamente altre videocamere, di amici o di sorveglianza - che osserva e cattura dal vero situazioni impossibili, facendone sentire il peso e la naturalezza. Dunque, Chronicle è un paradossale film vérité, con gli effetti speciali per una volta non usati alla cazzo, ma sfruttati nella loro evidenza plastica e insieme eterea per inventare un cinema sensoriale, oltre le leggi della fisica (pazzesca in questo senso la scena dell'aereo), che ha il pregio di giocare la carta risaputa del progetto alla Blair Witch Project, risolvendolo però in chiave iperrealista, dunque inconsistente e asettica come l'immaginario che ci circonda.
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