giovedì 17 maggio 2012

Quasi amanti

De rouille et d'os, il nuovo film di Jacques Audiard presentato questa mattina in concorso, e' la versione seria e complessa di Quasi amici. Chissa' se i francesi, per i quali il film con Cluzet e' stato uno dei fenomeni dell'anno, se ne accorgeranno. Forse no, perche' per forma e ambizione i due film sono all'opposto, ma in fin dei conti ci sono gli stessi personaggi, le stesse dinamiche relazionali, lo stesso prevalere della fisicita' e dell'animalita' sulla ragione. In entrambi i film c'e' un handicappato (qui una donna) e un uomo rozzo, immediato e salvifico perche' autentico, a prendersene cura; ce' l'idea del legame fisico che viene prima di quello spirituale, in un curioso ribaltamento emotivo del recente romanticismo cinematografico: come se degli amori che nascono tra anime belle non sapessimo piu' che farcene, mentre preferiamo vedere anime alla deriva che per natura o sfiga sono ridotte allo stato animale e arrivano poco per volta ad amarsi. Cosi' alla fine e' l'amore a restare intatto, fuori dallo schermo e dalla sporicizia che le immagini lasciano dietro di se'. Naturalmente quello di Audiard e' un film sul corpo, sulla menomazione che non indietreggia di fronte all'impudicizia dello sguardo: e il discorso sul sesso, la box, la violenza corporea e, a lato, sullo sguardo che ruba segreti e viola la dignita' delle persona, e' certamente la cosa piu' intrigante del film. Un film che funziona, figuriamoci, che pero' riporta il cinema del suo regista un passo indietro rispetto al genere dal capolavoro Il profeta (lo ammetto, prima di allora lo consideravo uno qualsiasi, Audiard, oggi invece, dopo quel film incredibile, mi aspettavo parecchio). Qui siamo nel terreno del melodramma fichetto, delle immagini contrastate, della musica indie a dettare l'umore malinconico (all'inizio e alla fine c'e' Bon Iver), di una ricercatezza visiva un po' fastidiosa. E pure la storia, in certi momenti secca e spiritosa, ma in altri decisamente ricattatoria, sembra riprendere l'incertezza generale di un film che ha ottime cose, che non molla mai la presa nonostante la trama risaputa, ma che in fondo non trova nel melodramma quello che Audiard aveva trovato nel film carcerario: il grande respiro del cinema popolare.

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