mercoledì 16 maggio 2012
Appunti per un pezzo da scrivere su Moonrise Kingdom
Non si puo' (scusate gli accenti mancanti e date la colpa alle tastiere francesi) scrivere di un film come Moonrise Kingdom dopo averlo visto da appena venti minuti. Potrei aspettare un po' e pensarci su, ma non ho tempo. Per cui butto giu' le cose che ho pensato durante il film, come appunti di un pezzo che magari scrivero'.
Moonrise Kingdom e' quello che ho sempre pensato del cinema di Anderson: la nuova puntata di una serie sempre uguale a se stessa. Come i Simpson, per dire, o i Peantus, dove i personaggi non invecchiano mai e ogni volta tutto ricomincia da capo. E' ovvio, ma e' cosi'. I suoi film sono variazioni bloccate sullo stesso tema, pezzi unici che compongono una sinfonia orchestrale. Sara' un caso che
Moonrise Kingdom comincia con un'aria di Purcell (notizia: non c'e' quasi rock, in questo film, solo musica sinfonica) e la voce fuori campo di un bambino spiega come gli strumenti suonino prima da soli e poi tutti insieme? Non credo.
Moonrise Kingdom e' il film sulla famiglia sfaldata che si riforma da se', che non si conferma nonostante tutto, come succedeva nei Tenenbaum, ma si ricrea e reinventa. Certo, tutto alla fine si sistema, come sempre, ma e' come una spirale che continua a girare, ma su un piano diverso, ulteriore. Qualcosa, per quanto impercettibilmente, cambia. Forse perche' e' per la prima volta che i protagonisti non sono adulti mai cresciuti, ma bambini maturi come adulti. L'alterita', tema chiava del cinema di Anderson, sta nel negare al mondo degli adulti quei sentimenti - l'amore, la responsabilita', la liberta'- che gli sono riconosciuti. E' un film di liberazione e capovolgimento, con il solito, per me sempre folgorante, sguardo frontale che ruota su stesso, che spezza la bidemensionalita' del quadro e si apre alla profondita', che addirittura - come succede nella prima, simbolica sequenza - sfonda la quarta parete e la porta direttamente nel film. Non ricordo sia mai successo nel cinema di Anderson. Un'altra cosa inedita, naturale e innovativa
al tempo stesso , e' il rimando iconografico di molte inquadrature: se il modello resta il fumetto, questa volta Anderson va oltre, inserendo le sue figurine dentro (finte) miniature medievali e soprattutto riportando la frontalita' comunque esibita del suo cinema alle sue ovvie origini (e anche qui non ci avevo mai pensato, ma era evidente da sempre): il muto. Non pero' in chiave vintage, ma in modo assolutamente personale, con figure di personaggi che danzano sulla pellicola come le ombre di Papageno e Papagena nel film di Lotte Reiniger. E poi c'e' il cinema degli anni '60, periodo in cui e' ambientato il film, c'e' l'eterna adolescenza di un paese, l'America, che non accetta di essera maturo, di pensarsi vecchio e dunque fallito, c'e' un'isola selvaggia, due ragazzi che fuggono e vivono del loro amore, e dunque c'e' Monica e il desiderio, evocato nel momento piu' bello, quando i due giovani amanti passano la loro unica notte insieme e si amano di conoscenza e passione innocente, con i soliti libri inventati di Anderson, le copertine fantasiose e verissime, il mondo interiore che si apre all'altro e lo sguardo inqueito di una ragazzina innamorata che racchiude decenni di dolore e voglia di sfogarlo. E poi il desiderio tutto cinematografico di trovare un posto dove stare, nominarlo del proprio nome e li' racchiudere l'amore come in uno scrigno. Monrise Kingdom e' tutto questo, e credo anche parecchie cose in piu'.
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