Domenica scorsa è ricominciata The Newsroom, la serie scritta da Aaron Sorkin e ambientata nella redazione di un telegiornale americano. È alla seconda stagione ed è già alla prova del nove, dopo una prima stagione deludente per gli amanti di Sorkin e intermittente per tutti gli altri, tra fiumi di retorica americana e sacrosante battaglie sull’etica del giornalismo. Ci ho pensato, a The Newsroom e al fatto che ricominciasse proprio in questi giorni, la scorsa settimana, quando in rete è girato parecchio, prima in inglese poi in italiano, un articolo di Francesca Borri, inviata di guerra freelance che ha scritto con buona dose di giornalismo romanzesco quanto sia difficile, oggi, venire rispettati e ben pagati per un lavoro durissimo e un tempo molto invidiato. Ci ho pensato proprio perché il pezzo affronta, spesso in modo involontario per via del suo stile grave, un sacco di questioni aperte sul giornalismo, e soprattutto sull'uso che si fa della parola e delle tecniche narrative in molti giornali («Repubblica» su tutti). Questo perché Francesca Borri, al di là della richiesta di verifica (di fact checking) nata dopo il post di un fotografo di guerra inviato negli stessi luoghi della giornalista freelance, e ovviamente al di là del rispetto che merita per il lavoro che ha scelto di fare (e che tra l'altro ha scatenato un ampio dibattito), scrive in un modo per me insopportabile, emblema di un giornalismo pomposo e autoassolutorio, certo consapevole di vivere sul filo del rasoio, ma per nulla restio a farlo sapere a chiunque. Non sto a farla lunga sui difetti della sua prosa, altri hanno fatto meglio di me: ma quando Borri scrive “e la mia giovinezza, onestamente, è finita ai primi pezzi di cervello che mi sono schizzati addosso, avevo ventitrè anni ed ero in Bosnia”, a me, pur con tutto il rispetto, ripeto, già basta per mollare, per pensare che sì, Francesca Borri farà pure un lavoro importante e rischioso, ma non dovrebbe essere lei a dirlo, non dovrebbe essere lei a dipingersi come Rosa Luxemburg: dovrebbero farlo gli altri, il suo editor, che se la chiama di rado evidentemente non la considera così importante, probabilmente gli bastano la Reuters o la CNN che di certo ha sempre accesa nel suo ufficio; dovrebbe farlo l'opinione pubblica, che sarebbe bello avesse ancora un'idea avventurosa del reporter di guerra, un po' alla Mel Gibson di Un anno vissuto pericolosamente, ma sappiamo tutti che così non è, che oggi ogni suo articolo, frase o parola, ogni immagine scattata o filmata da qualche suo collega pure lui con l'elmo calcato in testa, finisce in mezzo a tutte le altre, in una galassia sterminata e indecifrabile, e ogni quotidiano o mensile o tg che pubblicherà o trasmetterà quelle testimonianze non ce la farà a emergere oltre le centinaia di migliaia e migliaia di informazioni trasmesse in ogni secondo, tanto che alla centesima ripetizione durante il giorno della stessa notizia - sulla CNN, su Al Jazeera, su Sky, su Rai News, su TgCom, su qualsiasi cosa stiamo guardando – tutto si equivale, tutto si appiattisce e si prepara a essere sostituito a partire dalle 5.30 della mattina successiva da qualcosa pronto a sua volta a diventare una forma di vita altrettanto breve e apiattita…
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mercoledì 17 luglio 2013
domenica 11 marzo 2012
Kony 2012
Chi passa un po' di tempo sui siti d'informazione e sta dietro alle cose che vanno per la maggiore su Facebook e Twitter, saprà che in questi giorni un video realizzato dall'organizzazione americana Invisible Children, dedicato alla lotta contro il criminale di guerra ugandese Joseph Kony, ha fatto registrare milioni di visitatori su YouTube e Vimeo e ha ottenuto un interesse mediatico spropositato in tutto il mondo. Merito di Oprah Winfrey, non tanto degli attivisti di IC, dopo che il video era stato segnalato alla presentatrice americana dal tweet di una spettatrice. In Italia ne ha scritto con la solita precisione Il post di Luca Sofri, riassumendo critiche e ambiguità suscitate dal video, un documentario di 30 minuti realizzato da Jason Russell, fondatore nel 2003 di Invisible Children insieme con Ben Kessey e Laren Poole. La questione, in poche parole, riguarda l'efficacia del film e la sua qualità, la distanza che corre tra la promozione di una giusta causa (far conoscere al mondo i crimini di Kony e sostenere l'esercito ugandese per arrivare alla sua cattura) e l'utilizzo di mezzi ambigui e risaputi, legati in particolare a un moralismo manicheo che elimina qualsiasi forma di oggettività.
venerdì 24 febbraio 2012
La mia rubrica su Doppiozero
Come scrivevo ieri, da oggi su Doppiozero ho cominciato a tenere una rubrica settimanale chiamata #140cine: si tratta di presentare con 140 battute, vale a dire il formato Twitter, i film che escono oggi nelle sale. I singoli tweet si trovano sull'account Facebook e Twitter di Doppiozero e pure sulla mia pagina di Facebook. Tutti insieme, invece, si trovano qui, direttamente sul sito di Doppiozero. La rubrica che presenta i film della settimana è ormai tipica di ogni giornale on line, come ad esempio avviene sul Post e su Internazionale, ma l'obiettivo di Doppiozero è unire critica, per quanto minuscola, e sfida linguistica: un gioco, insomma, che si spera possa piacere e dare qualche indicazione per chi non sapesse cosa vedere al cinema.
lunedì 30 gennaio 2012
I 100 dischi italiani più belli di sempre
Oggi Rolling Stone, senza peraltro che se ne sentisse il bisogno o che qualcuno glielo avesse chiesto (ma si sa, queste cose van di moda, e adesso si comincia a farle pure in periodi dell'anno a caso, non solo a fine dicembre), oggi, dicevo, Rolling Stone ha pubblicato la lista dei 100 dischi italiani più belli di sempre, scelti da altrettanti giurati d'eccezione (così almeno dico loro). Un'idiozia di per sé, sia chiaro, ma come tutte le classifiche anche un'iniziativa curiosa e divertente, foss'anche solo per scorrerla e pensare ma-questi-non-capiscono-proprio-una... E in effetti la classifica è demenziale, oggi pomeriggio è girata parecchio su internet, dal Post a Twitter a Facebook, e un sacco di gente ha detto la sua, il più delle volte, ovvio, insultando e indignandosi. La ragione per cui la pubblico è perché oggi non ho di meglio da scrivere, ma soprattutto perché anche chi non l'avesse ancora letta possa pure lui giocare al gioco dei ma-questi-non-capiscono-proprio-una... In fondo, basta vedere il primo titolo, basta sapere che per loro, i giurati d'eccezione, Crêuza de mä non è il più bel disco italiano di sempre, e il resto vien da sé.
domenica 25 settembre 2011
La giusta distanza
Ieri ho letto questo bell'intervento di Luca Sofri sul suo blog, a proposito della pubblicazione on line della liste di politici gay e soprattutto sull'incosistenza della notizia, diffusa in modo più o meno pruriginoso, più o meno disinformato, dai maggiori quotidiani on line. Un passaggio del ragionamento di Sofri, supportato dalle parole di Michele Serra (sempre su Repubblica, ma su carta: e la distinzione è proprio il nocciolo del problema), è a mio modo di vedere fondamentale. Sofri parla del rovesciamento operato dalla stampa cartacea rispetto a quella on line, sostenendo che
"la realtà è rovesciata rispetto a come viene disegnata dai media tradizionali, che le fesserie che circolano in rete discendono dalle fesserie che abbiamo creato fuori dalla rete, che il peggio delle bufale online e degli allarmi infondati e della violenza verbale, internet lo impara dai media tradizionali, che quello che succede in rete è creato da persone in carne e ossa i cui modelli sono quelli del mondo “esterno” (se ancora esiste una distinzione): la politica, i giornali, la tv".Ecco l'espressione chiave, "mondo esterno". Per la stampa di prima classe, ie soprattutto per Repubblica, è la rete a rappresentare un mondo esterno: un universo semisconosciuto da osservare con distacco e ironia, un fiume in cui immergere per bene i piedi, salvo poi asciugarseli immediatamente. Tirare il sasso a Lindsay Lohan o Pippa Middleton, e poi togliere la mano. Citare il blog di gossip che ha fatto la porcata e nascondersi dietro espressioni quali "la rete", "gli intenauti", "il popolo del web", come se riportare una notizia (o più sovente una non notizia) data da altri non fosse uguale a darla da sé.
giovedì 5 maggio 2011
Il sentimento del tempo
Oggi, trent'anni fa, il 5 maggio 1981, moriva Bobby Sands, il militante dell'IRA che guidò la protesta contro la legge inglese che non riconosceva a lui e ai suoi compagni nordirlandesi lo status di prigionieri politici e si lasciò morire di fame in carcere. Bobby Sands è ancora oggi un martire della sua terra, un mito per qualsiasi movimento antagonista, un volto catturato in pochissime istantanee, tra qui questa, dove lo si vede sorridente e simile a un membro di una band progressive anni '70, con quegli occhi e quei capelli lunghi a esprimere la giovinezza di una generazione che ha avuto la fortuna di fare la Storia e la sfortuna di pagarlo con la vita. Tre anni fa l'artista Steve McQueen a Sands e alla sua scelta estrema, basata su una ragione morale più cattolica che militante, ha dedicato un film sconvolgente, Hunger, che in Italia nessuno si è sognato di distribuire. Prima era arrivato l'irlandese Una scelta d'amore, che raccontava lo strazio delle madri dei prigioneri dell'IRA rinchiusi con Sands e pure loro lasciati a morire di fame. La ragione per cui scrivo questo post, comunque, non è tanto ricordare o celebrare Sands - di cui consiglio il lucidissimo diario dalla prigione - ma la galleria fotografica pubbicata da Il Post e dedicata ai giorni successivi la sua morte, gli scontri a Belfast e Londonderry, gli scatti ai funerali (a colori, con Gerry Adams che porta la bara sulle spalle), le manifestazioni a New York... Istantanee di tanti anni fa che, come sempre in questi casi, grazie a una grana spessa, sbiadita, perduta, mi danno un senso di malinconia e bellezza che supera l'orrore della morte. E alla fine mi fanno pensare che il vero lascito della Storia sono proprio immagini come queste, che esprimono il sentimento del tempo come una lacerazione e con il loro potere evocativo straziante dicono più di qualsiasi parola che cerchi di esprimere cosa fossero quegli anni e chi li rendeva incandescenti.
sabato 8 gennaio 2011
Cose d'inizio anno
Sono tornato (se per caso qualcuno si era accorto che ero via) e nei giorni in cui sono stato via alcune cose carine sono comparse nei solito siti che guardo per tenermi aggiornato. Per esempio, su NPR gli Iron & Wine di Sam Bean hanno eseguito dal vivo il loro album di prossima uscita, Kiss Each Other Clean: il concerto è ancora on line ed è visibile qui. Un'altra cosa carina, poi, è la classifica delle migliori locandine dell'anno stilata da Mubi, il sito di streaming di film d'autore che sta guadagnano sempre più consensi (l'ultimo adepto è Scorsese, che ha venduto ai proprietari i film della sua fondazione): a scorrerla tutta insieme sembra di essere tornati ai colori pop degli anni '60, solo che al posto della psichedelia o delle visioni da dottor Moreau c'è la linearità elegante del design contemporaneo. In ogni caso, il primo posto è stato dato a Io sono l'amore di Luca Guadagnino. Infine, vagando sul solito Post ho trovato una bella e rispettosa pagina di necrologi dell'anno, in cui viene fatto l'elenco delle personalità scomparse nel 2010. E' un muro di foto, ciascuna con il proprio nome e il proprio link. Ha il sapore della nostalgia, rende internet qualcosa di umano.
lunedì 15 novembre 2010
Il nuovo coso di Safran Foer
L'altro giorno ho letto sul Post di un nuova iniziativa editoriale di Jonathan Safran Foer, il golden boy della letteratura americana che quasi dieci anni fa se ne uscì con un capolavoro poi fin troppo celebrato come Ogni cosa è illuminata e poi si confermò, segandosi però un po' le gambe, con il fighettino ma bello Molto forte, incredibilmente vicino. La caratteristica principale della sua scrittura, oltre al fatto di essere grandiosa, ispirata, intimamente, americanissimamente, ebrea, cioè intellettuale, tormentata, ironica, disperata, mai sazia di se stessa, è quella di instaurare un legame inaspettato con la sua stessa componente visuale. Le opere di Safran Foer non sono semplici libri, ma quasi ipertesti dove la parola scritta si accosta alla grafica e alla fotografia e dove queste ultime arrivano a interagire con il mondo immateriale della parola. Era così in Molto forte, incredibilmente vicino e pure nel pamphlet sul vegetarianesimo Niente importa uscito quest'anno e ora torna a esserlo con l'edizione curata dallo scrittore di quello che dichiara essere il suo libro preferito, il racconto La via dei coccodrilli di Bruno Schulz, autore ebreo polacco ucciso durante la seconda guerra mondiale.
sabato 23 ottobre 2010
Il fallimento del Dams
In settimana si è innescata una polemica intellettuale di cui ieri Il post ha dato conto riassumendone i passaggi salienti. Tutto è nato da Goffredo Fofi e da un pezzo sull'Unità in cui se la prendeva con il Dams e il suo fallimento educativo; qualche giorno dopo è arrivata la risposta di uno storico docente di Bologna, Renato Barilli, che difendeva la potenzialità occupazionali della facoltà, e poi quella di un altro docente, il quale invece la buttava sull'ironico e dava a Fofi del dinosauro. Lo scambio è piuttosto interessante per capire come in Italia le cose note e stranote saltino all'attenzione solo quando a ribadirle sono le persone che contano. Perché che il Dams sia un fallimento pedagogico, prima ancora che professionale, è evidente a tutti, specie per chi ha studiato in facoltà affini, tipo Lettere o Scienze della comunicazione. E' una questione di approfondimento e curiosità di ciò che si studia; di passione, pazienza e rispetto: tutte cose che di fronte all'arte si imparano solo se qualcuno te le insegna. Fofi, che come al solito non ci va giù leggero, lo dice in modo chiarissimo:
mercoledì 13 ottobre 2010
Arte popolare e pigrizia collettiva
Ieri è morto Angelo Infanti, l'attore di cui fino a ieri nessuno si ricordava ma che a quanto pare tutti consideravano un mito per via di cinque minuti tratti da Borotalco di Carlo Verdone. Oggi in rete è ovunque il video della scena di Manuel Fantoni che le spara grosse con Verdone e se ne parla con il solito misto ambiguo di ammirazione e superiorità verso l'arte popolare. Sul Post Flavia Perina parla della scena come di un modello dell'Italia di allora e di oggi, ricollegando la boria di Fantoni (il cargo liberiano, la Bombay con i morti per le strade, Richard Burton sbattuto a calci fuori di casa...) al costume politico dei nostri tempi: sacrosanto, non c'è che dire. Ma è proprio in nome della rivisitazione acritica di quell'arte popolare, che era volutamente e necessariamente minore, che oggi la spocchia di Fantoni, fittizia nel film, è diventa vera nella realtà. Ho sempre pensato che quando si perde la distinzione tra il bello e il condiviso, tra l'arte e la capacità di cogliere le spinte di una società, si perda anche la distinzione tra ciò che giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che è vero e ciò che è fasullo. La comicità di Verdone era vera, l'esaltazione dei comportamenti eccessivi di alcuni suoi personaggi è una costruzione, un tentativo, l'ennesimo, di giustificare vizi personali (la boria, la volgarità, la pigrizia) attraverso la scusa dell'idenfificazione collettiva. Identificazione vostra, se posso permettermi.
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