Chi passa un po' di tempo sui siti d'informazione e sta dietro alle cose che vanno per la maggiore su Facebook e Twitter, saprà che in questi giorni un video realizzato dall'organizzazione americana Invisible Children, dedicato alla lotta contro il criminale di guerra ugandese Joseph Kony, ha fatto registrare milioni di visitatori su YouTube e Vimeo e ha ottenuto un interesse mediatico spropositato in tutto il mondo. Merito di Oprah Winfrey, non tanto degli attivisti di IC, dopo che il video era stato segnalato alla presentatrice americana dal tweet di una spettatrice. In Italia ne ha scritto con la solita precisione Il post di Luca Sofri, riassumendo critiche e ambiguità suscitate dal video, un documentario di 30 minuti realizzato da Jason Russell, fondatore nel 2003 di Invisible Children insieme con Ben Kessey e Laren Poole. La questione, in poche parole, riguarda l'efficacia del film e la sua qualità, la distanza che corre tra la promozione di una giusta causa (far conoscere al mondo i crimini di Kony e sostenere l'esercito ugandese per arrivare alla sua cattura) e l'utilizzo di mezzi ambigui e risaputi, legati in particolare a un moralismo manicheo che elimina qualsiasi forma di oggettività.
Il video si trova qui (ora ha pure i sottotitoli in italiano) e ciascuno ne giudichi liberamente l'efficacia. La cosa certa è che da un punto di vista estetico, l'unico che conti veramente, è ingiudicabile, una specie di navigazione satellitare all'interno di una questione complessa, guidata dalla voce paterna del regista e dei suoi principi morali. Ovviamente, essendo un doc militante americano, si parte con il pistolotto introduttivo su cosa siamo diventati ("In questo momento ci sono più persone su Facebook rispetto al numero di persone presenti 200 anni fa"), si vedono le mille luci veloci della metropoli contemporanea, si ascoltano le frasi che creano la cornice postmoderna ("Il più grande desiderio dell'umanità è quello di unirsi e connettersi") e il tono messianico che fa pensare al disastro energetico imminente. Eppure si parla d'altro, di una causa civile, non planetaria. Si vuole coinvolgere il mondo intero, certo: ma intanto, come al solito, l'importante è partire da noi, da quello che siamo e vogliamo essere, poi il resto viene a ruota. Per gli americani - per certi americani, meglio - parlare del mondo significa guardarlo con la lente di una logica narrativa che ingloba il reale e lo trasforma in una finzione: sembra banale, ma è ancora così.
Nei primi minuti del video si stabilisce che ogni azione ha una scopo, perché inserita in un contesto globale il cui movimento è stabilito dal film stesso. Il peccato originale di Kony 2012 non sta solo nell'ambiguità delle soluzione che propone o nella fragilità delle fonti documentarie, ma prima ancora nell'idea che un video possa cambiare la storia perché costruito con una scansione narrativa offerta come inevitabile. Non l'azione a cui ci si richiama, attenzione, ma il video stesso. Non a caso, dopo la cornice universale dei primi minuti, si passa immediatamente al particolare (con le immagini della nascita del figlio del regista) e si arriva alla questione di Kony attraverso il filtro della vita privata, con il bambino cinquenne che snocciola la battaglia tra buoni e cattivi e si fa quindi garante morale della purezza dello scontro. Il resto viene da sé, per l'appunto, e per quanto mi riguarda il video potrebbe anche finire lì. Sarà anche giusta la causa per cui è stato realizzato, ma se la mettiamo così ogni battaglia delle idee lo diventa.
Altre letture in merito:
RispondiEliminahttp://www.tnepd.com/2012/invisible-children-fare-i-milioni-supportando-una-dittatura-militare
http://www.tnepd.com/2012/quante-belle-persone-dietro-kony-2012
http://www.tnepd.com/2012/kony-2012-propaganda-illuminata
Ciao
TNEPD