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mercoledì 17 luglio 2013

Dove vanno a finire le notizie?

Domenica scorsa è ricominciata The Newsroom, la serie scritta da Aaron Sorkin e ambientata nella redazione di un telegiornale americano. È alla seconda stagione ed è già alla prova del nove, dopo una prima stagione deludente per gli amanti di Sorkin e intermittente per tutti gli altri, tra fiumi di retorica americana e sacrosante battaglie sull’etica del giornalismo. Ci ho pensato, a The Newsroom e al fatto che ricominciasse proprio in questi giorni, la scorsa settimana, quando in rete è girato parecchio, prima in inglese poi in italiano, un articolo di Francesca Borri, inviata di guerra freelance che ha scritto con buona dose di giornalismo romanzesco quanto sia difficile, oggi, venire rispettati e ben pagati per un lavoro durissimo e un tempo molto invidiato. Ci ho pensato proprio perché il pezzo affronta, spesso in modo involontario per via del suo stile grave, un sacco di questioni aperte sul giornalismo, e soprattutto sull'uso che si fa della parola e delle tecniche narrative in molti giornali («Repubblica» su tutti). Questo perché Francesca Borri, al di là della richiesta di verifica (di fact checking) nata dopo il post di un fotografo di guerra inviato negli stessi luoghi della giornalista freelance, e ovviamente al di là del rispetto che merita per il lavoro che ha scelto di fare (e che tra l'altro ha scatenato un ampio dibattito), scrive in un modo per me insopportabile, emblema di un giornalismo pomposo e autoassolutorio, certo consapevole di vivere sul filo del rasoio, ma per nulla restio a farlo sapere a chiunque. Non sto a farla lunga sui difetti della sua prosa, altri hanno fatto meglio di me: ma quando Borri scrive “e la mia giovinezza, onestamente, è finita ai primi pezzi di cervello che mi sono schizzati addosso, avevo ventitrè anni ed ero in Bosnia”, a me, pur con tutto il rispetto, ripeto, già basta per mollare, per pensare che sì, Francesca Borri farà pure un lavoro importante e rischioso, ma non dovrebbe essere lei a dirlo, non dovrebbe essere lei a dipingersi come Rosa Luxemburg: dovrebbero farlo gli altri, il suo editor, che se la chiama di rado evidentemente non la considera così importante, probabilmente gli bastano la Reuters o la CNN che di certo ha sempre accesa nel suo ufficio; dovrebbe farlo l'opinione pubblica, che sarebbe bello avesse ancora un'idea avventurosa del reporter di guerra, un po' alla Mel Gibson di Un anno vissuto pericolosamente, ma sappiamo tutti che così non è, che oggi ogni suo articolo, frase o parola, ogni immagine scattata o filmata da qualche suo collega pure lui con l'elmo calcato in testa, finisce in mezzo a tutte le altre, in una galassia sterminata e indecifrabile, e ogni quotidiano o mensile o tg che pubblicherà o trasmetterà quelle testimonianze non ce la farà a emergere oltre le centinaia di migliaia e migliaia di informazioni trasmesse in ogni secondo, tanto che alla centesima ripetizione durante il giorno della stessa notizia - sulla CNN, su Al Jazeera, su Sky, su Rai News, su TgCom, su qualsiasi cosa stiamo guardando – tutto si equivale, tutto si appiattisce e si prepara a essere sostituito a partire dalle 5.30 della mattina successiva da qualcosa pronto a sua volta a diventare una forma di vita altrettanto breve e apiattita…