Alla fine ho visto La versione di Barney. Come Francesco Merlo. E ho letto il libro, dieci anni fa. Come quasi tutti, compreso Merlo. Visto adesso fa un certo effetto. E a parte celebrare i dieci anni dalla morte di Richler, il film sembra concepito dal ministero della cultura canadese come una vetrina di prodotti d.o.c, con i cammei di Cronenberg e Arcand, le canzoni di Leonard Cohen (almeno tre, e nemmeno delle più ricercate), l’hockey e i paesaggi naturali esposti come prosciutti in fiera. Fa un certo effetto, soprattutto, perché oggi uno come Barney Panofsky non è più attuale, ma è il simbolo di un’epoca e un secolo passati, per quanto sia doloroso ammetterlo. Solo dieci anni fa, quando il libro arrivò in Italia, tra le urla di giubilo di D’Orrico e Ferrara si fece a turno a identificarsi nella follia superomistica del personaggio, un eroe modernista e pienamente novecentesco ben felice di essere dannato e modellato sui villain sociopatici e sessuomani di Bellow e Roth. Oggi, invece, passato un decennio e anche di più (il romanzo è del 1997), di quell’adorabile figlio di puttana di Barney non sappiamo che farcene: in fondo, alla fine, resta un povero coglione e la compassione l’abbiamo spesa tutta per Herzog o per Sabbath.
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venerdì 14 gennaio 2011
mercoledì 12 gennaio 2011
Le peggiori recensioni e le peggiori copertine
Siccome ieri ho letto la recensione di La versione di Barney scritta da Francesco Merlo su Repubblica e mi sono come al solito depresso per il solipsismo autoriale dei giornalisti incaricati di occuparsi di cinema per quel quotidiano (giornalisti del tutto privi di conoscenza cinematografiche, ma proprio per questo, penseranno in redazione, in grado di rendere interessante una materia evidentemente noiosa e nemmeno avvicinabile per nobiltà alla letteratura), siccome ieri, dicevo, ero un po' depresso, mi sono tirato su guardando la classifica delle peggiori copertine musicali dell'anno stilata da Pitchfork. L'altro giorno ho linkato quella stilata da Mubi sulle migliori locandine cinematografiche del 2010, ma questa qui, che pesca nella produzione indie ed elettropop americana, è decisamente migliore, perché non si tiene niente in bocca e scrive commenti a volte geniali. Quello dedicato alla copertina di An Introduction to... Elliot Smit (di cui avevo parlato qui), ad esempio, è geniale: "A collection that documents a brilliant artist's lifetime of creativity gets an album cover that was conceived and executed in less time it takes to listen to Amity". E in effetti a guardare la foto del povero Smith con il gomito tagliato, su sfondo bianco e scritta in Garamond fatta nemmeno a Photoshop, viene proprio da ridere. Ce ne sono anche di più divertenti, comunque: si trovano tutte qui.
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