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mercoledì 23 marzo 2011

Think You Can Wait

Il film si chiama Win Win, lo interpreta Paul Giamatti, l'ha diretto Thomas McCarthy, lo stesso di L'ospite inatteso, strano personaggio che da regista gira film indie e da attore partecipa a roba commerciale come 2012 o Vi presento i nostri, e lo scorso gennaio è stato presentato naturalmente al Sundance, essendo la classica storia indipendente di provincia in cui Giamatti fa l'adulto sfigato in perenne gilet. L'interesse per il film è dato dalla colonna sonora indie (come pure quella di un film simile come Jack Goes Boating di Philip Seymour Hoffman, con i Grizzly Bear ed Evan Lurie), che tra le altre include una nuova canzone dei National, che si chiama Think You Can Wait e che è il primo pezzo ufficiale dalla pubblicazione un anno fa di High Violet. Non è un gran pezzo, e molto probabilmente è una delle cose scartate  dall'album e pure dalla successiva versione deluxe, ma si fa ascoltare: conferma che non ci si sbaglia mai a diffidare dei b-side o dei singoli a ridosso di un lavoro ufficiale, così come che una voce come quella di Berninger rende bella qualsiasi canzone passabile. E la copertina del singolo, che riprende il concept di High Violent, è notevole.

venerdì 14 gennaio 2011

La versione di Barney dieci anni dopo

Alla fine ho visto La versione di Barney. Come Francesco Merlo. E ho letto il libro, dieci anni fa. Come quasi tutti, compreso Merlo. Visto adesso fa un certo effetto. E a parte celebrare i dieci anni dalla morte di Richler, il film sembra concepito dal ministero della cultura canadese come una vetrina di prodotti d.o.c, con i cammei di Cronenberg e Arcand, le canzoni di Leonard Cohen (almeno tre, e nemmeno delle più ricercate), l’hockey e i paesaggi naturali esposti come prosciutti in fiera. Fa un certo effetto, soprattutto, perché oggi uno come Barney Panofsky non è più attuale, ma è il simbolo di un’epoca e un secolo passati, per quanto sia doloroso ammetterlo. Solo dieci anni fa, quando il libro arrivò in Italia, tra le urla di giubilo di D’Orrico e Ferrara si fece a turno a identificarsi nella follia superomistica del personaggio, un eroe modernista e pienamente novecentesco ben felice di essere dannato e modellato sui villain sociopatici e sessuomani di Bellow e Roth. Oggi, invece, passato un decennio e anche di più (il romanzo è del 1997), di quell’adorabile figlio di puttana di Barney non sappiamo che farcene: in fondo, alla fine, resta un povero coglione e la compassione l’abbiamo spesa tutta per Herzog o per Sabbath.