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mercoledì 12 gennaio 2011
Le peggiori recensioni e le peggiori copertine
Siccome ieri ho letto la recensione di La versione di Barney scritta da Francesco Merlo su Repubblica e mi sono come al solito depresso per il solipsismo autoriale dei giornalisti incaricati di occuparsi di cinema per quel quotidiano (giornalisti del tutto privi di conoscenza cinematografiche, ma proprio per questo, penseranno in redazione, in grado di rendere interessante una materia evidentemente noiosa e nemmeno avvicinabile per nobiltà alla letteratura), siccome ieri, dicevo, ero un po' depresso, mi sono tirato su guardando la classifica delle peggiori copertine musicali dell'anno stilata da Pitchfork. L'altro giorno ho linkato quella stilata da Mubi sulle migliori locandine cinematografiche del 2010, ma questa qui, che pesca nella produzione indie ed elettropop americana, è decisamente migliore, perché non si tiene niente in bocca e scrive commenti a volte geniali. Quello dedicato alla copertina di An Introduction to... Elliot Smit (di cui avevo parlato qui), ad esempio, è geniale: "A collection that documents a brilliant artist's lifetime of creativity gets an album cover that was conceived and executed in less time it takes to listen to Amity". E in effetti a guardare la foto del povero Smith con il gomito tagliato, su sfondo bianco e scritta in Garamond fatta nemmeno a Photoshop, viene proprio da ridere. Ce ne sono anche di più divertenti, comunque: si trovano tutte qui.
mercoledì 3 novembre 2010
Mister Misery
Sono passati poco più di sette anni dalla morte di Elliott Smith e lo scorso 21 ottobre, anniversario del suo triste suicidio, la Kill Rock Stars ha pubblicato un'atipica antologia di suoi pezzi. Si chiama An Introduction to... Elliott Smith, raccoglie tracce note e meno note, roba inedita e versione alternative di materiale pubblicato, e non è la solita collezione arraffa-soldi. Forse per il fatto di essere un'introduction, taglia fuori quasi tutta l'ultima fase della carriera di Smith, quella più pop e complessa di Figure 8 (presente solo in una traccia, questa), e si concentra sulle melodie acustiche e graffianti, quelle che riprendono i giri di chitarra da Bob Dylan, ma ne aggiornano l'espressività alla disperazione esistenziale della contemporaneità, a una disaffezione per il mondo testimone di rabbia adolescenziale e voglia di affetto da gonfiare il cuore. La prima volta che una canzone di Elliot Smith mi ha colpito non è stato, come per tanti, nella colonna sonora di Will Hunting - Genio ribelle (in cui c'era la stupenda Miss Misery), ma in una scena dei Tenenbaum, questa, in cui Luke Wilson tenta il suicidio tagliandosi le vene e Wes Anderson ci mette sopra Needle in the Hay, da quel momento in poi diventata per me il simbolo di una tristezza disperata, senza nome, ma a suo modo attaccata alla vita. Pure Elliot Smith era a suo modo attaccato alla vita, nella sua voce ci sentivi la dolcezza così come una durezza impossibile da scalfire. Per sé ha scelto la parte disperata, il resto l'ha lasciato nelle sue canzoni.
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