Visualizzazione post con etichetta Joaquin Phoenix. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Joaquin Phoenix. Mostra tutti i post

domenica 26 maggio 2013

Una questione personale

Poche parole per spezzare una lancia in favore di The Immigrant, che a Cannes è piaciuto a pochissimi. Ho aspettato a scriverne per via del poco tempo a disposizione, ma anche per provare a capire se l'emozione durante e immediatamente dopo la visione del film potesse durare nel tempo, dopo il piccolo, trascurabile shock di ritrovarsi sola e abbandonata in mezzo a generali sospiri di delusione e noia. The Immigrant è per me un film bellissimo, anche a tre giorni dalla visione. Non posso farci niente. James Gray gira in modo così classico, caldo, preciso, senza mai sprecare una sola inquadratura, senza mai scivolare, almeno per me, nel formalismo (che è proprio ciò che stavolta in molti gli rimproverano), da prendermi dritto al cuore e non lasciarmi più. Avrà a che fare con uno stato di precoscienza, con qualche forma a priori un po' troppo esposta, con l'idea di spazio, tempo, città, amore, famiglia, libertà che mi aspetto di trovare non solo al cinema, ma in qualsiasi cosa che leggo vedo e ascolto. Una questione personale, dunque. The Immigrant, per me, ripeto, è un film operistico bellissimo e straziante, girato con uno stile classico e pulito che si fa carico delle mancanze della storia e costruisce spazi, tempi, situazioni (la scena della confessione, il bacio tra la Cotillard e Jeremy Rennier, l'inquadratura finale) di grande, potentissima emozione. Cinema puro che può anche permettersi di abusare della parola e del mélo, con un effetto di ridondanza che non stona, almeno per me, ma approfondisce il senso di lutto e rassegnazione al destino contro cui combatte, da sempre, ogni personaggio di Gray. Per due ore in The Immigrant sono tornato a respirare le atmosfere morbide e soffocate dei flashback del Padrino Parte II, che per me (e mi rendo conto che si tratta ancora di una questione personale) rappresentano l'infanzia da spettatore; ho risentito le musiche struggenti di Toro scatenato (idem come sopra), percependo non nell'uso rallentatore, ma nell'aria di abbandono e mestizia, lo stesso senso di passività ed esclusione dalla Storia che ha colpito intere generazioni di immigrati; ho ritrovato, grazie a luci, vestiti, oggetti, rumori, colori (un po' come nel romanzo La fine di Salvatore Scibona e un po', a denti stretti, come in Leone), una mitologia americana sospesa fra malinconia e liberazione. Il quasi totale dissenso critico mi ha messo senza dubbio la pulce nell'orecchio; evidentemente The Immigrant funziona poco o sbaglia parecchio: ma se non temessi di prendere la più clamorosa delle tranvate, ne parlerei come di un capolavoro. Magari se ne riparlerà quando uscirà nelle sale.

martedì 8 gennaio 2013

Due happy returns: il mio e quello di "The Master"

Poco alla volta le cose riprendono. E pure questo blog, inizialmente trascurato poi abbandonato nel settembre scorso, tornerà in vita. Senza troppo baccano, visto che nemmeno so quanta gente graviti ancora qui, proverò a riprendere il cammino, così come viene, se mi va di farlo e se trovo cose da scrivere. Per cui bentornato a me e alle persone che passeranno.

Tanto per cominciare, mi ripeto. E cioè metto un pezzo su un film uscito la scorsa settimana, The Master di Paul Thomas Anderson, di cui avevo già scritto da Venezia, qui sopra e su Filmidee. Sul film ho riflettuto parecchio negli ultimi mesi e l'ho messo, qui, tra i migliori dell'anno. Non so cosa ne pensi la maggior parte delle persone, probabilmente che un filmone oscuro e mancato, ma per me - e non sono il solo, ovviamente - è un oggetto piuttosto imprescindibile e necessario, a voler cogliere i segnali che lancia sulle possibilità del cinema nel nostro tempo. Se vi va, come sempre (e stavolta con una ragione in più, visto che sono stato un po' prolisso), ho provato a spiegarlo qui sotto.


The Master
, inutile negarlo, è un film contraddittorio: maestoso eppure trattenuto, massimalista eppure intimista. Grande Hollywood che parla con il linguaggio ostico di un kammerspiele: difficile da ipotizzare, e pure da vedere. Ma non potrebbe essere altrimenti per un film che cerca di restituire le profondità della mente attraverso l’unica realtà rappresentabile, e cioè il corpo umano nella sua impenetrabilità. Ché in definitiva, nonostante le giustificate perplessità di chi ha faticato a coglierne il senso (in patria Roger Ebert, da noi Roy Menarini), The Master parla di questo: del corpo, della mente e del vuoto che li circonda. Parla di come al di là di un volto, nei pensieri e nell’inconscio di un uomo – di tutti gli uomini – non ci sia poi molto, a dire il vero quasi nulla. E di come, però, quel nulla sia la cosa più vera che possediamo.

martedì 28 settembre 2010

La moda delle OST chic

Pare che far firmare la colonna sonora da un artista noto sia l'ultima frontiera del cinema hollywoodiano: sicuramente un altro modo per arricchire il curriculum di un film e dare materiale agli uffici stampa per guadagnarsi pagine sui giornali. Così ultimamente è successo che i Phoenix abbiano firmato le musiche di Somewhere (partiture anonime in una compilation molto indie: Strokes, Gwen Stefani, T-Rex, Foo Fighters, i Phoenix stessi), che Bjork abbia composto per un film d'animazione islandese e che i giornali on line di musica in questi giorni parlino molto delle canzoni di Trent Reznor dei Nine Inch Nails per The Social Network o delle musiche dei Daft Punk per il sequel di Tron, Tron: Legacy, in arrivo a Natale in tutto il mondo (tranne - indovinate un po' - in Italia). Insomma, sono mode, come sempre succede con Hollywood, e sicuramente ne arriveranno altre, ma non è detto che in mezzo ci scappi pure qualcosa di bello.

Per chi volesse, le canzoni di The Social Network si possono scaricare qui.
Mentre questa è la canzone dei Phoenix che sta in Somewhere.

martedì 21 settembre 2010

Wolfgang Amadeus Remix

Uno degli album più belli (magari non più originali) dell'anno passato è stato Wolfgang Amadeus Phoenix dei Phoenix, gruppo francese che sta vivendo il suo momento di gloria: ha scritto la colonna sonora di Somewhere, è in tour da mesi e il suo ultimo lavoro è considerato uno piccolo capolavoro pop-rock. Piccolo perché ad ascoltarlo si sente il gusto minimal per passaggi e ritmi basilari, con suoni secchi che costruiscono una melodia semplice eppure precisa, mai eccessiva né tanto meno fichetta, in stile Air o Arctic Monkeys per intenderci. Semmai, i Phoenix sono più vicini agli Strokes, forse più tenui e sensibili. La cosa curiosa, poi, è che sanno scherzare sulla loro musica come pochi altri: a partire dal titolo dell'album, dove i riferimenti alla classica sono solo provocazioni, per proseguire con quello che si è saputo oggi grazie a Pitchfork. E cioè che i Phoenix hanno messo a disposizione le canzoni di Wolfgang Amadeus Phoenix per realizzare remix liberi e personali: da qui si possono scaricare le tracce dell'album e cazzeggiare un po' con i programmi digitali, se si è capaci.

sabato 18 settembre 2010

Phoenix/Affleck e il cinema spietato

Alla fine era tutta una balla. Joquin Phoenix non è andato fuori di testa, non ha fatto spontaneamente le cose che fa in I'm Still Here e pure la figuraccia da Letterman era una finta. L'ha detto ieri Casey Affleck al New York Times e la notizia ha fatto il giro del mondo: tutti stupiti, un po' offesi, magari sollevati. E chissà, invece, se presi in giro ancora una volta. In fondo la grandezza del film è proprio quella di fare del dubbio l'unica modalità di sguardo possibile. Si può solo credere o non credere a quello che vede, al cinema; l'unica cosa di cui si ha bisogno è una base su cui poggiare piedi e pensieri, ma in questo caso a mancare è proprio quella: il corpo si distrugge inarrestabile, la pietas si ferma ben prima del lecito e con curiosità e orrore si assiste allo spettacolo osceno dell'autodistruzione altrui. Scervellarsi sulla veridicità di ciò che si vede non aveva senso dopo la proiezione di Venezia, né ce l'ha ora che sappiamo (ma sappiamo?). Ecco perché una notizia come questa - e il fatto che se ne parli come di uno scoop - segna una netta divisione tra giornalismo e critica, con buona pace di Mereghetti. Stupirsi della presa in giro e provare a ricostruirla è da giornalisti; perdersi nella magnifica e drammatica deriva dell'attore-personaggio è da critici o, più semplicemente, da amanti inguaribili di quella macchina spietata che è il cinema.

venerdì 10 settembre 2010

Venezia 67 - Presenze e ritorni - Parte II

Si diceva di figure, temi e stili che ritornano nei film visti della Mostra. In due tra i più belli, Meek's Cutoff e I'm Still Here, è l'idea della traiettoria, del percorso e della sua prosecuzione, a tracciare inaspettati paralleli. Il primo è un western atipico (non esattamente una storia che parte, prosegue e finisce), dove quasi nulla succede, se non l'unica cosa che succede nel viaggio di un gruppo di pioneri di metà '800: il cammimo alla ricerca di acqua e di una terra dove fermarsi. E' perciò la durata del percorso, l'idea di uno spazio così aperto da essere soffocante a costruire il film. Tutte le implicazioni, i dubbi, le possibili storie che potrebbero nascere e invece sono solo accennate, esistono lungo l'ampiezza di una strada infinita.

lunedì 6 settembre 2010

Venezia 67 - Il punto della situazione

Dunque. Giunti a metà Mostra posso dire che quest'anno il programma è bello, a tratti decisamente bello. Muller ci sa fare, non c'è che dire. Con la sua cinefilia riesce a tenere in piedi un festival che per altri veri (quelli del glamour e della gente per le strade) sta perdendo colpi da ogni parte. Però i film ci sono, e pure belli, in certi casi decisamente belli.

Questa è la lista delle cose belle, decisamente belle, che ho visto:
Post mortem di Pablo Larrain (Concorso)
Meek's Cutoff di Kelly Reichardt (Concorso)
I'm Still Here di Casey Affleck (Fuori concorso)