sabato 18 settembre 2010
Phoenix/Affleck e il cinema spietato
Alla fine era tutta una balla. Joquin Phoenix non è andato fuori di testa, non ha fatto spontaneamente le cose che fa in I'm Still Here e pure la figuraccia da Letterman era una finta. L'ha detto ieri Casey Affleck al New York Times e la notizia ha fatto il giro del mondo: tutti stupiti, un po' offesi, magari sollevati. E chissà, invece, se presi in giro ancora una volta. In fondo la grandezza del film è proprio quella di fare del dubbio l'unica modalità di sguardo possibile. Si può solo credere o non credere a quello che vede, al cinema; l'unica cosa di cui si ha bisogno è una base su cui poggiare piedi e pensieri, ma in questo caso a mancare è proprio quella: il corpo si distrugge inarrestabile, la pietas si ferma ben prima del lecito e con curiosità e orrore si assiste allo spettacolo osceno dell'autodistruzione altrui. Scervellarsi sulla veridicità di ciò che si vede non aveva senso dopo la proiezione di Venezia, né ce l'ha ora che sappiamo (ma sappiamo?). Ecco perché una notizia come questa - e il fatto che se ne parli come di uno scoop - segna una netta divisione tra giornalismo e critica, con buona pace di Mereghetti. Stupirsi della presa in giro e provare a ricostruirla è da giornalisti; perdersi nella magnifica e drammatica deriva dell'attore-personaggio è da critici o, più semplicemente, da amanti inguaribili di quella macchina spietata che è il cinema.
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