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giovedì 8 marzo 2012

A Simple Life

Oggi che è la festa delle donne esce eccezionalmente di giovedì un film dedicato a una donna eccezionale: Ah Tao, l'anziana e dolcissima governante protagonista di uno dei film più belli dell'anno, il piccolo grande capolavoro A Simple Life. Ne ho già scritto tempo fa da Venezia, dove probabilmente avrebbe vinto il Leone d'oro se non fosse stato per il Faust di Sokurov, e il fatto che nel frattempo abbia trovato la via della sala (grazie alla Tucker Film) è davvero una bella notizia. Sarebbe altrettanto bello poter scrivere "andate a vederlo", ma siccome esce in un numero esiguo di copie sarà difficile scovarlo al di fuori delle grandi città. In ogni caso, cercate di recuperarlo e se vi va leggete qui sotto il pezzo da Venezia con un po' di ritocchi.

A Simple Life di Ann Hui racconta la storia vera del rapporto d'affetto tra un produttore cinematografico e la domestica settantenne al servizio della sua famiglia. Un lavoro minimale nello stile ma non nell'ispirazione, scandito dagli incontri tra un uomo in carriera e di buon cuore e una donna nata per accudire persone più ricche e ambiziose. Il film non ha scossoni, ha una fotografia limpida al servizio del digitale, non ha progressione narrativa se non lo scorrere del tempo e il degenerare fisico della donna e declina dolcemente verso la fine di una vita degna di essere vissuta. La semplicità dell'operazione è in realtà il segno della sua forza, poiché il rapporto umano che racconta non ha nulla di gratuito (non ci si dimentica mai, infatti, della differenza sociale tra i due protagonisti) ma al contrario, grazie a una onestà di fondo mai in discussione, costruisce passo dopo passo un elogio della volontà e della gentilezza d'animo. A Simple Life parla della responsabilità dei sentimenti, dell'amore come obbligo prima di tutto verso gli altri: e lo fa con una voce così umana, così vera e spontanea da sfiorare l'astrazione pura. Chapeau, signora Ann Hui.

giovedì 27 ottobre 2011

Capolavoro, sì, capolavoro

Ieri, chissà perché di martedì, è uscito il film che ha vinto il Leone d'oro a Venezia, Faust di Sokurov, uno di quei film che vedi e poi vorresti rivedere, perché sicuramente c'è qualcosa che ti sei perso, o che non ti sei goduto abbastanza, o che se rivedi capisci meglio, collegando un movimento a un altro movimento, una luce a un buio, un volto a un corpo, tanto questo film, che rappresenta Sokurov all'ennesima potenza, è complesso e modernista, irrefrenabile nella sua frenesia, continuamente alla ricerca di un senso come il suo protagonista, un Faust ricolmo di hubris e miseria intellettuale, umano troppo umano eppure continuamente tendente al divino, meglio all'assoluto. Il Faust di Sokurov, come avevo già scritto da Venezia è un capolavoro, un film che sconvolge con la forza d'urto dello stato di grazia, è un'esperienza sensoriale, visiva e intellettuale, che poche altre volte mi è capitato di vivere al cinema. E da qui in poi rimetto il post che ho scritto un mesetto fa.

sabato 10 settembre 2011

Venezia 68 - Pezzo finale (un po' paludato)

Ecco il pezzo un po' paludato, non proprio da blog e non proprio nel mio stile (se ne ho uno), che ho scritto a proposito della Mostra sul settimanale della città da cui provengo.

Il dilemma che deve aver affrontato la giuria della 68° Mostra di Venezia – e che si pone anche chi il cinema lo diffonde nelle sale e nei cineforum – è quello che affligge da sempre la produzione d’autore: favorire i film belli e impossibili oppure quelli belli e accessibili, facili da distribuire e comprendere, con attori noti e impostazione narrativa classica?
A Venezia 68 – una buona edizione, forse inferiore alle previsioni – si sono visti entrambi i tipi di film: e la giuria presieduta dall’americano Darren Aronofsky ha scelto di premiare i primi, assegnando il Leone d’oro al russo Faust di Aleksandr Sokurov e il Leone d’argento al cinese People Mountain People Sea di Cai Shangjun, ed escludendo quasi del tutto i secondi. Meglio, ha consegnato sì il Gran premio della giuria a Terraferma di Emanuele Crialese (lo si può già vedere nelle sale e giudichi il lettore della qualità di un’opera per chi scrive piatta e superficiale), ma ha dimenticato i grandi film di Cronenberg e Polanski, le pellicole di genere di William Friedkin (Killer Joe) e di Ami Canaan Mann, figlia del grande Michael (Texas Killing Fields) o i seducenti e parecchio modaioli Shame di Steve McQueen e Wuthering Heights di Andrea Arnold, versione realista e sporca di Cime tempestose.

giovedì 8 settembre 2011

Faust

E alla fine il capolavoro è arrivato anche Venezia 68. C'era A Dangerous Method, certo, che è un grandissimo film, ma forse è troppo razionale e preciso per sconvolgere con la forza d'urto dello stato di grazia. Con Faust di Sokurov, invece, siamo a uno dei momenti più alti della Mostra, un'esperienza sensoriale, visiva e intellettuale, che poche altre volte mi è capitato di vivere al cinema. Chiudendo la tetralogia sul potere, iniziata con Moloch e proseguita con Taurus e Il sole, Sokurov trasforma il Faust di Goethe in un eroe modernissimo, un attonito e dubbioso uomo di scienza - instancabile, mai sazio, limitato, distaccato, coinvolto, perduto - che si fa tentare dal diavolo e guidare dalla propria ambizione. Attraverso un lavoro straordinario sull'immagine - levigata, pittorica, desaturata, distorta, annebbiata, tra i marroni, i verdi, gli azzurri e i grigi di un passato sfumato - e la parola - infinita, beffarda, esorbitante, illuminante, dispersa - Sokurov costruisce due ore e un quarto di flusso di coscienza in cui gli occhi e la mente sono presi d'assalto e continuamente messi alla prova. Il suo Faust sembra un dipinto fiammingo, pieno di un realismo brulicante che contiene i segni grotteschi della maledizione; a partire dal testo di Goethe - a dimostrazione di quanto ho scritto ieri a proposito di Wuthering Heights e Amis (questo sì che è un adattameno moderno) - inventa una deriva dell'eroe che riflette l'angoscia esistenziale di fronte alla finitezza della conoscenza e la debolezza di fronte alla seduzione del male.