Qui a Venezia la versione di Wuthering Heights firmata dall'inglese Andrea Arnold ha parecchi estimatori. E a ragione, credo. Perché è un film pressoché perfetto, preciso e selvaggio, sporco di fango e di lordura rabbiosa, e per questo oltre qualsiasi lettura sentimentalista del romanzo; forse un po' facile nella scelta di fare di Heathcliff un ragazzo di colore, ma efficace nel scegliere di scarnificare la struttura del testo e renderlo graffiante e sghembo come i due nomi degli amanti della brughiera, Heathcliff per l'appunto e Cathy, intagliati sul muro. Eppure Wuthering Heights è un film sbagliato. Interessante, ma sbagliato. Un film fermo a una pratica estetica che invece di superare un testo vecchio di due secoli e alla base della cultura sentimentale europea, si adagia su di esso, lo rappresenta in termini realistici, mostrando quanto di sporco ci fosse nella calma brulicante della Brontë, ma lo interpreta come materia morta. Quello che la Arnold porta sullo schermo non è niente di più del romanzo, la sua essenza e matericità: niente di male come operazione, per carità. Ma non se svolta sul corpo di un romanzo tra i più conosciuti, amati e digeriti della nostra letteratura.
A mio modo di vedere, oggi come oggi, Cime tempestose non più ha bisogno di essere raccontato, rappresentato e attualizzato a potenziali letture razziali o antropologiche. Cime tempestose ha bisogno - se proprio non possiamo fare a meno di parlarne - di essere utilizzato come materia naturale della nostra cultura; come patrimonio comune in grado di generare riflessioni che superino quelle già note, amate, digerite sull'amore assoluto tra Heathcliff e Cathy.
La Arnold, invece, rende onore ai due amanti, al loro senso di unità e totalità, ma lo fa con un'estetica pericolasamente indie, azzurrina e corporea, che nel peggiore dei casi ricorda i toni lirici dei videoclip indie (e infatti alla fine partono i Mumford and Sons e la fotografia ricorda pericolosamente questo video) e nel migliore sembra una versione raffreddata e nordeuropea della luminosità abbacinante di Malick. Quello che le manca è uno spirito moderno e dunque necessario. Lo spirito di chi considera la grande letteratura del passato, quella che diventa tascabile e viene sempre ristampata, come materia alterata dalla cultura pop e a partire da un'impossibile innocenza ne sfrutta liberamente aspetti e temi.
Come fa ad esempio Martin Amis nella Vedova incinta, romanzo che mi ritrovo a citare sempre più spesso e nel quale l'emancipazione sessuale femminile degli anni '70 viene raccontata attraverso una straordinaria cavalcata goliardica nella letteratura inglese tra'700 e '800, da Fielding alla Austen, passando ovviamente per le Brontë. Amis non rende omaggio ai testi classici, non li attualizza e non li re-interpreta; li usa come altri mezzi del proprio bagaglio artistico, testi che hanno superato il diritto d'autore e per questo non necessitano più di rispetto e verità. Testi per l'appunto come Cime tempestose, che non chiedono altro che essere usati, sfruttati, pronti a diventare altro, a nascondere tra le righe significati e interpretazione che nemmeno posseggono, ma che ciascuno può trovare. Quello di Amis è un metodo che supera il post-moderno, che ridiventa creativo e schizzato come il modernismo e lo adatta alla frammentarietà dei nostri tempi. "Come vuoi spiegarmi Ragione e sentimento questa volta?", chiede Gloria a Keith, dopo che i due hanno intepretato e praticato in chiave erotica Orgoglio e pregiudizio. "Sfondandomi il culo, per caso?".
Ecco, insomma, per quanto bello e onesto, Wuthering Heights manca di questa follia folgorante e coraggiosa. E a conti fatti mi sembra solo un film che rende onore al romanzo di partenza mettendone in scena l'essenza. E' molto, ma non abbastanza. E dimostra quanto il cinema, proseguendo nella strada di un estetismo innamorato della natura e del reale, resti indietro nella comprensione di quella stessa natura e di quello stesso reale.
E' chiaro che chi ha amato l'ultimo Malick, i suoi sentimentalismi e le sue "profonde" riflessioni filosofiche - The Tree of Life, questo sì che è un grande film sulla natura e sul reale! - non può che giudicare questo cupo Wuthering Heights come un film che invece resta "indietro nella comprensione di quella stessa natura e di quello stesso reale" (gli mancherebbe uno spirito moderno!)... Perché far parlare le cose, i paesaggi, i volti, i corpi - e farlo soprattutto senza musica classica in sottofondo, senza enfasi, o preghiere ripetute ripetute e ripetute - oggi vuol dire adottare un'estetica "realista" o "pericolosamente indie" (Arnold sarebbe indie!), fare un cinema "vecchio", d'autore (aiuto!)... Ma per favore. Ci lamentiamo della distribuzione italiana, delle etichette che ricevono alcuni film (il film-scandalo, il film-evento ecc). Ma la critica nostrana, che ruolo ha in tutto questo? Che figura fa??
RispondiEliminaNon parla dei film che non ama, e quando lo fa, al massimo si spinge a dire che sono "interessanti", ma dopo, non contenta, costruisce un discorso tautologico e ripiegato su se stesso, fatto di "andrebbe bene ma..." - e alla fine... toh, il film è "bello e onesto", ma manca la "follia folgorante e coraggiosa" - dunque è "sbagliato"! Sì, proprio! Gli mancherebbe quel che porta Malick a far dire ai suoi personaggi frasi da cioccolatini, come "se non ami, la vita passa come un lampo" (ma nessuno ha il coraggio di dire l’imbarazzi provato nel sentire queste frasi, ché Malick mica è un regista francese, loro sono pretenziosi e arroganti!).
E' proprio questo rifiuto del leggermente diverso, dell'estetica violenta e senza concessioni, del progetto estetico rigoroso (dell'arte), è proprio questo atteggiamento antiquato (uno si chiede chi aveva il coraggio di fischiare Pasolini, Antonioni e Fellini: ecco che tutto si spiega - niente è cambiato...) che, alla fine, impedisce ai grandi registi all'estero, e meno conosciuti (soprattutto francesi), di sbarcare in Italia...
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RispondiEliminaCaro Anonimo,
RispondiEliminanon so chi tu sia, siccome ti firmi Anonimo, e soprattutto leggo solo ora quello che hai scritto più di tre mesi fa. Mi dispiace non essermi accorto prima di questi commenti, sarebbe stato bello discuterne: spero tu li possa leggere ora, anche se non so quante volte ancora passato per queste pagine (pagine che ultimamente ho trascurato parecchio - e me ne dispiace).
Leggo con interesse quello che scrivi, ma devo fermarti su un paio di cose: innanzitutto The Tree of Life non mi è piaciuto, non so dove tu abbia letto o capito il contrario. Nel pezzo che scrissi lo scorso anno, e che trovi facilmente in questo blog, dicevo che aveva cose molto belle, ma altre molto ma molto brutto. E lo stesso ho detto dell'ultimo, ancora peggiore To the Wonder (l'hai visto?). Rispetto ad altri autori che citi, non so bene perché senti il bisogno di fare un'infornata tale, mettendo in un mucchio solo Dumont, Reichardt o Carax come se fosse gente che mi sta sulle palle o della quale ho parlato male su queste pagine. A parte Dumont, di cui non credo di aver mai scritto, di Kelly Reichard e Carax non posso che dir bene (anzi, di Carax del solo Holy Motors, che giudico un capolavoro, perché il resto della sua filmografia la conosco davvero poco).
Rispetto a Cronenberg, ho scritto in più occasioni perché lo reputo un grande film e mi sembra che i suoi dialoghi da soap siano ampiamente giustificati dalla messinscena, che quella sì, nel suo rigore, trovo come dici tu un grande progetto estetico. Non ho mai scritto, poi, che Carnage è il capolavoro di Polanski, e non è che entusiasmarsi per un film significa anche considerarlo un capolavoro (cosa c'entra, poi, che dura 79'?). Infine, Andrea Arnold è indie, urca se lo è: altrimenti perché metterebbe i Mumford & Sons alla fine? E l'hai mai visto un video di Bon Iver per capire quanto è indie l'estetica della Arnold?
In ogni caso, credo in questo blog, sbagliando o meno valutazione sui film, mi sono sempre prefissato una cosa: considerare i film per il progetto che c'è alla base (quello cioè che mi accusi di non fare). Considero i film oggetti da guardare e poi eventualmente sviscerare, come se fossero a strati. Più si va a fondo, più trovi uno strato più complesso e quindi anche a rischio di errore. Ecco perché giudicavo, lo scorso anno, Cime tempestoso un film interessante ma sbagliato: perché si presta a più sguardi, più profondità. Idem per Reygadas, solo che nel suo caso la complessità sta tutta in cima e gratta gratta rischia di trovare poco. Io comunque considero Reygadas un grande regista, trovo che il suo precedente Stellet Licht fosse magnifico: giudico i film per quello che sono, non faccio di ogni cosa che vedo il segnale di un cinema che segna le nostre sorti umane e progressive.
Sì, ho visto To The Wonder, e l'ho trovato un film migliore rispetto a The Tree of Life: finalmente attraversato da dubbi concreti, non più dimostrativo o assurdamente ideologico. Ho letto la tua recensione sul film e l'ho trovata densa di spunti davvero interessanti - finalmente una critica che, pure non apprezzando il film in questione, lo analizza e non lo penalizza.
RispondiEliminaIl mio discorso era un'analisi generale della critica italiana oggi: c'è un po' Manassero (i giudizi sbrigativamente negativi su Post tenebras lux - il cinema del futuro: in questo film c'è la vita -, su Shame - dire che il film è "vecchio" mi sembra un controsenso, che ci vada bene o no è un film di oggi, del 2011; e parlare di moralismo vuol dire non aver compreso il film - e su Wuthering Heights - non si può certo giudicare indie l'estetica del film soltanto per l'uso dei Mumford & Sons finale: c'è molto grande cinema, un montaggio eccezionale, uno sguardo tattile, fisico, nervoso, che interiorizza le cose), un po' Crespi (fra le qualità di Carnage metteva la durata - no, non è uno scherzo), e tanti altri critici.
Leggo Cineforum, si vuole spesso riflettere dove va la critica, si guarda con atteggiamento compassionevole la cinefilia: e invece la critica cartacea italiana (altrove per fortuna siamo messi meglio), mio personalissimo parere, dovrebbe tornare ad essere cinefila. APPASSIONARSI. Non promuovere più i film stanchi, già visti, e che non rischiano. A Dangerous Method (sia o meno un capolavoro) è un film che merita una difesa così appassionata? Cronenberg deve ancora essere difeso? Non meriterebbe più attenzione un cinema diverso, non distribuito, così da invitare chi legge al recupero, a darsi da fare laddove la nostra distribuzione è colpevolmente lacunosa?
Sarò un ingenuo, ma penso che la critica (online e cartacea) possa ancora essere una guida. Bisogna tornare appassionati, cinefili. Essere responsabili: ripeto, il critico è (anche) una guida, aldilà dei gusti personali, e non è giusto esaltare l'ultimo insipido Assayas e tenere invece nel dimenticatoio registi difficili e radicali come Reygadas, Dumont, Denis, Bonello, Noé, Grandrieux, Tarr, Breillat.
Chissà se leggerai questa mia risposta...
Un saluto, Lorenzo