giovedì 8 settembre 2011

Faust

E alla fine il capolavoro è arrivato anche Venezia 68. C'era A Dangerous Method, certo, che è un grandissimo film, ma forse è troppo razionale e preciso per sconvolgere con la forza d'urto dello stato di grazia. Con Faust di Sokurov, invece, siamo a uno dei momenti più alti della Mostra, un'esperienza sensoriale, visiva e intellettuale, che poche altre volte mi è capitato di vivere al cinema. Chiudendo la tetralogia sul potere, iniziata con Moloch e proseguita con Taurus e Il sole, Sokurov trasforma il Faust di Goethe in un eroe modernissimo, un attonito e dubbioso uomo di scienza - instancabile, mai sazio, limitato, distaccato, coinvolto, perduto - che si fa tentare dal diavolo e guidare dalla propria ambizione. Attraverso un lavoro straordinario sull'immagine - levigata, pittorica, desaturata, distorta, annebbiata, tra i marroni, i verdi, gli azzurri e i grigi di un passato sfumato - e la parola - infinita, beffarda, esorbitante, illuminante, dispersa - Sokurov costruisce due ore e un quarto di flusso di coscienza in cui gli occhi e la mente sono presi d'assalto e continuamente messi alla prova. Il suo Faust sembra un dipinto fiammingo, pieno di un realismo brulicante che contiene i segni grotteschi della maledizione; a partire dal testo di Goethe - a dimostrazione di quanto ho scritto ieri a proposito di Wuthering Heights e Amis (questo sì che è un adattameno moderno) - inventa una deriva dell'eroe che riflette l'angoscia esistenziale di fronte alla finitezza della conoscenza e la debolezza di fronte alla seduzione del male.


E in un crescendo di corpi e oggetti, respiri e sussurri, luci e oscurità, grottesco ed elegia, al minimo della dignità intellettuale del Faust Sokurov fa corrispondere il massimo della ricercatezza pittorica, indugiando come sempre nell'amore per la ricercatezza iconografica ma trovando alcune delle più belle sequenze d'amore mai viste al cinema (giuro, davvero!). Per chi ha visto il film, credo siano impossibli da dimenticare i volti di Faust e Margherita trasformati in icone dalla luce bianchissima alle loro spalle o il momento dell'abbandono nel lago che conduce all'inferno.

Sono sprazzi di assoluta grazia pittorica in un affresco così vivo e ispirato da vivere anche di un'ironia dissacrante e rozza, con un Faust rassegnato eppure bramoso (che a me ha ricordato l'Herzog di Bellow, cocciuto vittimista e fondamentalmente coglione) e un diavolo hobbit dall'aspetto disgustoso. Un diavolo destinato a soccombere, benintesto; e un Faust novello Ulisse che si sbarazza del mostro per gridare al nulla il proprio desiderio di andare oltre - "oltre, oltre, oltre" - e proseguire allegro nella sua opera di esaltazione e (dunque) distruzione.

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