Ieri, chissà perché di martedì, è uscito il film che ha vinto il Leone d'oro a Venezia, Faust di Sokurov, uno di quei film che vedi e poi vorresti rivedere, perché sicuramente c'è qualcosa che ti sei perso, o che non ti sei goduto abbastanza, o che se rivedi capisci meglio, collegando un movimento a un altro movimento, una luce a un buio, un volto a un corpo, tanto questo film, che rappresenta Sokurov all'ennesima potenza, è complesso e modernista, irrefrenabile nella sua frenesia, continuamente alla ricerca di un senso come il suo protagonista, un Faust ricolmo di hubris e miseria intellettuale, umano troppo umano eppure continuamente tendente al divino, meglio all'assoluto. Il Faust di Sokurov, come avevo già scritto da Venezia è un capolavoro, un film che sconvolge con la forza d'urto dello stato di grazia, è un'esperienza sensoriale, visiva e intellettuale, che poche altre volte mi è capitato di vivere al cinema. E da qui in poi rimetto il post che ho scritto un mesetto fa.
Chiudendo la tetralogia sul potere, iniziata con Moloch e proseguita con Taurus e Il sole, Sokurov trasforma il Faust di Goethe in un eroe modernissimo, un attonito e dubbioso uomo di scienza - instancabile, mai sazio, limitato, distaccato, coinvolto, perduto - che si fa tentare dal diavolo e guidare dalla propria ambizione. Attraverso uno straordinario lavoro sull'immagine - levigata, pittorica, desaturata, distorta, annebbiata, tra i marroni, i verdi, gli azzurri e i grigi di un passato sfumato - e la parola - infinita, beffarda, esorbitante, illuminante, dispersa - Sokurov costruisce due ore e un quarto di flusso di coscienza in cui gli occhi e la mente sono presi d'assalto e continuamente messi alla prova. Il suo Faust sembra un dipinto fiammingo, pieno di un realismo brulicante che contiene i segni grotteschi della maledizione; a partire dal testo di Goethe inventa una deriva dell'eroe che riflette l'angoscia esistenziale di fronte alla finitezza della conoscenza e la debolezza di fronte alla seduzione del male.
E in un crescendo di corpi e oggetti, respiri e sussurri, luci e oscurità, grottesco ed elegia, al minimo della dignità intellettuale del Faust Sokurov fa corrispondere il massimo della ricercatezza pittorica, indugiando come sempre nell'amore per la ricercatezza iconografica ma trovando alcune delle più belle sequenze d'amore mai viste al cinema (giuro, davvero!). Per chi ha visto il film, credo siano impossibli da dimenticare i volti di Faust e Margherita trasformati in icone dalla luce bianchissima alle loro spalle o il momento dell'abbandono nel lago che conduce all'inferno.
Sono sprazzi di assoluta grazia pittorica in un affresco così vivo e ispirato da vivere anche di un'ironia dissacrante e rozza, con un Faust rassegnato eppure bramoso (che a me ha ricordato l'Herzog di Bellow, cocciuto vittimista e fondamentalmente coglione) e un diavolo hobbit dall'aspetto disgustoso. Un diavolo destinato a soccombere, benintesto; e un Faust novello Ulisse che si sbarazza del mostro per gridare al nulla il proprio desiderio di andare oltre - "oltre, oltre, oltre" - e proseguire allegro nella sua opera di esaltazione e (dunque) distruzione.
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