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mercoledì 4 luglio 2012

Take Shelter (e in più c'è Jessica)

Oggi è apparso sul solito Doppiozero un mio pezzo su Take Shelter, il film di Jeff Nichols di cui lo scorso anno si è molto parlato, soprattutto per segnalare il suo regista come l'astro nascente del cinema americano un po' indie e un po' hollywoodiano, e che venerdì scorso, sull'onda della partecipazione in concorso a Cannes dell'ultimo film di Nichols, Mud (che purtroppo non ho visto), è uscito nelle sale italiane, ovviamente distribuito da una casa che forse nemmeno esiste e in un periodo in cui nessuno se ne potrà accorgere. In ogni caso, in attesa che anche i giornalisti dei quotidiani e soprattutto il pubblico si accorga che Nichols, con tutta la sua giovinezza e la sua inevitabile inesperienza, è uno veramente bravo, Take Shelter resta un film da vedere e rivedere, una specie di teorema su come il cinema classico possa ancora raccontare il nostro tempo. E poi c'è Jessica, ragazzi, c'è Jessica. Chevvelodicoaffare...
Qui sotto, comunque, metto il mio pezzo, che potete trovara anche qui.
Le badlands americane sono piatte e sconfinate, non nascondono nulla, non lasciano via di scampo. Per il cinema sono un luogo iconico in cui dare vita a un fantasma che non si ciba del buio, della sorpresa, dello spavento, ma del loro contrario: la luce, l’attesa, l’ansia che si insinua lentamente. Pensate a Intrigo internazionale, all’aereo dall’alto, a Cary Grant che vede tutto e non sa dove fuggire o nascondersi: ovunque si muova è a tiro, ovunque si giri è solo terra piatta, nessun riparo o quasi. La paura lo circonda, lo soffoca. Sopravvive, certo, ma il ribaltamento di prospettive, il troppo spazio dove fuggire e dunque l’impossibilità di fuggire, generano un trauma soprattutto per lo spettatore.

lunedì 4 giugno 2012

Libertà

Tra le interessanti uscite cinematografiche di fine stagione, di cui ho parlato qui pochi giorni fa, c'è sicuramente un film uscito già lo scorso 25 maggio ma passato abbastanza inosservato e dunque da recuperare in qualche modo (non deve essere troppo difficile, visto che in rete si trova più o meno da sei mesi). Si chiama La fuga di Martha, in originale Martha Marcy May Marlene, e l'ha diretto il giovane Sean Durkin (classe 1981), uno di cui molto probabilmente sentiremo ancora parlare e che magari, come è successo quest'anno a Jeff Nichols (classe 1978), ce lo ritroveremo in concorso a Cannes. Su La fuga di Martha, comunque, lo scorso anno ho pubblicato un pezzo su Filmidee, che ripropongo qui per chi volesse leggerlo.
Ci sono parole che definiscono un periodo storico, che ne colgono ansie e prospettive. Una di queste – con particolare riferimento alla cultura americana – è “libertà”. Per via del romanzo di Jonathan Franzen, certo, che frantuma il monolitico totem creato in otto anni dalla politica di Bush, e anche per via di alcuni film visti quest’anno a Cannes (ndr: l'anno scorso, 2011). Uno era Take Shelter di Jeff Nichols, che oscurava il concetto di libertà illuminando di luce iperrealista quello speculare di paura (l’altra parola chiave del decennio), e un altro era Martha Marcy May Marlene di Sean Durkin, discesa anche in questo caso speculare in una duplice costrizione familiare, sia borghese sia settaria.

lunedì 16 maggio 2011

Paura e libertà

Lo scorso anno ho parlato quasi solamente di film che non mi erano piaciuti, film brutti, vecchi, stanchi o sbagliati. Quest'anno, invece, essendo il festival migliorato, parlo solo di roba bella. Come i due americani visti ieri, Take Shelter e Martha Marcy May Marlene, un'opera seconda e un'opera prima di due autori, Jeff Nichols e Sean Durkin, dal futuro promettente. Due film che affrontano questioni legate alla contemporaneità e alle sue derive, tra il genere e il soggettismo come solo certi americani sanno fare, nel bene e nel male. Il primo affronta i traumi causati dall'ideologia della paura attraverso il delirio paranoico di un uomo ossessionato dagli urugani: è un'opera controllata, in bilico tra la follia e la razionalità, cosi come tra la narrazione libera e la forma racconto. Potrebbe essere un horror, un film catastrofico, la storia di una coppia che vede minacciata la propria stabilità, la discesa di un uomo nella schizofrenia. Non è niente di tutto ciò perché trattiene le emozioni, la paura e lo squilibrio mentale e trasforma la realtà messa in scena in un vicolo cieco dentro cui ogni personaggio vive imprigionato. Come sempre, poi (e come in Restless di Van Sant) la salvezza passa per un rifugio chiuso, per una luce che non risolve ma aiuta a sopportare.