lunedì 16 maggio 2011

Paura e libertà

Lo scorso anno ho parlato quasi solamente di film che non mi erano piaciuti, film brutti, vecchi, stanchi o sbagliati. Quest'anno, invece, essendo il festival migliorato, parlo solo di roba bella. Come i due americani visti ieri, Take Shelter e Martha Marcy May Marlene, un'opera seconda e un'opera prima di due autori, Jeff Nichols e Sean Durkin, dal futuro promettente. Due film che affrontano questioni legate alla contemporaneità e alle sue derive, tra il genere e il soggettismo come solo certi americani sanno fare, nel bene e nel male. Il primo affronta i traumi causati dall'ideologia della paura attraverso il delirio paranoico di un uomo ossessionato dagli urugani: è un'opera controllata, in bilico tra la follia e la razionalità, cosi come tra la narrazione libera e la forma racconto. Potrebbe essere un horror, un film catastrofico, la storia di una coppia che vede minacciata la propria stabilità, la discesa di un uomo nella schizofrenia. Non è niente di tutto ciò perché trattiene le emozioni, la paura e lo squilibrio mentale e trasforma la realtà messa in scena in un vicolo cieco dentro cui ogni personaggio vive imprigionato. Come sempre, poi (e come in Restless di Van Sant) la salvezza passa per un rifugio chiuso, per una luce che non risolve ma aiuta a sopportare.


Martha Marcy May Marlene
, invece, da quanto io mi ricordi, è uno dei pochissimi fillm dedicati alle sette di giovani americani panteisti e violenti che da quelle parti, specie alle estremità occidentali e orientali, hanno sempre rappresentato un modo estremo di rifiuto della società. Non solo contro il capitalismo, ma contro l'idea stessa di libertà socializzata e ottenuta attraverso un compromesso collettivo. Un'idea di alterità che spaventa, che annulla l'individuo e ricrea una dimensione chiusa e soffocante pari a qualle che si vuole fuggire; Il film racconta gli effetti sulla psiche di una ragazza prima sedotta da una setta alla Charles Manson e poi fuggita. È tutto giocato sull'inquietudine e la fragilità della protagonista, le immagini vivono di precarietà e tremore, cupe e anche in questo caso pericolosamente esposte al limite estremo che porta alla follia e alla tragedia. La discussione su un altro tipo di libertà, non negoziabile e coercitiva, mi ha ricordato le riflessioni del Franzen di Libertà. Meno lucido, ma legato a filo doppio con una deriva distruttiva che gli intellettuali americani vivono come una pericolosa attrazione.

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