Oggi è apparso sul solito Doppiozero un
mio pezzo su
Take Shelter, il film di
Jeff Nichols di cui lo scorso anno si è molto parlato, soprattutto per segnalare il suo regista come l'astro nascente del cinema americano un po' indie e un po' hollywoodiano, e che venerdì scorso, sull'onda della partecipazione in concorso a Cannes dell'ultimo film di Nichols,
Mud (che purtroppo non ho visto), è uscito nelle sale italiane, ovviamente distribuito da una casa che forse nemmeno esiste e in un periodo in cui nessuno se ne potrà accorgere. In ogni caso, in attesa che anche i giornalisti dei quotidiani e soprattutto il pubblico si accorga che Nichols, con tutta la sua giovinezza e la sua inevitabile inesperienza, è uno veramente bravo,
Take Shelter resta un film da vedere e rivedere, una specie di teorema su come il cinema classico possa ancora raccontare il nostro tempo. E poi c'è
Jessica, ragazzi, c'è Jessica. Chevvelodicoaffare...
Qui sotto, comunque, metto il mio pezzo, che potete trovara anche
qui.
Le badlands americane sono piatte e sconfinate, non nascondono nulla, non lasciano via di scampo. Per il cinema sono un luogo iconico in cui dare vita a un fantasma che non si ciba del buio, della sorpresa, dello spavento, ma del loro contrario: la luce, l’attesa, l’ansia che si insinua lentamente. Pensate a Intrigo internazionale, all’aereo dall’alto, a Cary Grant che vede tutto e non sa dove fuggire o nascondersi: ovunque si muova è a tiro, ovunque si giri è solo terra piatta, nessun riparo o quasi. La paura lo circonda, lo soffoca. Sopravvive, certo, ma il ribaltamento di prospettive, il troppo spazio dove fuggire e dunque l’impossibilità di fuggire, generano un trauma soprattutto per lo spettatore.