I Coen sono novecenteschi. Il loro mondo è ancora popolato da uomini senza qualità, da uomini che non ci sono, da fratelli smarriti inadatti alla vita, insofferenti, isterici o rassegnati. Il cantante folk di inizio anni '60 Llewin Davis è uno di loro, un musicista di talento ma non abbastanza da emergere, una testa di cazzo epocale che perde ogni occasione nella vita, che manca le uscite dell'autostrada, che viaggia per ore da New York a Chicago per ritrovarsi con un pugno di mosche, imprigionato in una circolarità narrativa che lo tiene lì dov'è, a piedi sotto la pioggia, con i piedi fradici, in macchina nella neve, e non gli lascia scampo. L'altro, l'altrove, l'obiettivo che sfugge dalle mani, non è, come in A Serious Man, inafferrabile, di spalle, intravisto solo nel finale ritagliato sullo sfondo di un tornado, ma è afferratto al volo, portato in giro, perso, ritrovato, scambiato, investito, forse ucciso, poi ancora ritrovato. Si tratta di un gatto, che i Coen inquadrano spesso di spalle, che seguono nel primo movimento di macchina del film, e che il loro povero protagonista ritrova di continuo sulla propria strada: si chiama Ulisse, il gatto, e lui una casa alla fine la trova, per lui il cerchio si chiude nell'unico posto dove stare; mentre per Llewin Davis, no, a lui storpiano il nome di continuo, lui lo fanno suonare e non gli vendono i diritti d'autore, lui ha uno scatolone pieno del suo disco invenduto, e un posto dove andare non ce l'ha, ne' una casa, ne' un palco, perché suona sempre nello stesso posto e solo all'inizio e alla fine, ogni volta preso a botte da un tizio misterioso e scuro che non vorrebbe mai vedelo in scena. Nel frattempo e' arrivato Dylan, che canta le stesse canzoni di Llewyn ma quelli come lui li cancellera' dalla storia, della musica e forse della vita. Llewin si arrende, torna a fare il marinaio, o forse no perche' non ha soldi nemmeno per quello...
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domenica 19 maggio 2013
martedì 1 novembre 2011
My Back Pages
Lulu, l'assurdo album a due tra Lou Reed e i Metallica, è pressoché inascoltabile: e non lo dico come giudizio di valore, ma perché fondamentalmente non capisco la musica né del primo né dei secondi, avendo da tempo abbandonato lo stile impassibile e atonale di Lou Reed e non essendo mai stato un appassionato dell'heavy metal. Per cui, insomma, non so perché ne parlo e probabilmente, visto che non ne so una mazza, non dovrei parlarne. Ma oggi ho letto la recensione di Pitchfork, che dà all'album un impietoso 1, e mi ha fatto molto ridere questo passaggio:
It'd be one thing if Lulu were being slipped into the marketplace as a low-profile curiosity, akin to a 90s-era spoken word album with some alt-rocker screeching away in the background. (il link è nell'originale)Ché in effetti come operazione mi sembra proprio vecchia e stantia, come quei giganteschi raduni dove suonano nac-nac-nac naching on evensdor e tutti cantano fuori tempo e magari c'è quello che azzecca l'asolo e quell'altro che glielo sputtana entrando in anticipo. Ecco, Lulu, con tutto il rispetto per Lou Reed e i Metallica, mi sembra la versione in album di quelle robe lì. A memoria, una sola canzone collettiva mi sembra degna di nota: My Back Pages cantata da Bob Dylan, più Tom Petty, Neil Young, Eric Clapton, George Harrisone e Roger McGuinn al The 30th Anniversary Concert Celebration dello stesso Dylan. Quando Neil attacca con la chitarra tira giù i muri.
mercoledì 20 ottobre 2010
I remember you were the Chelsea Hotel
Oggi Repubblica ha pubblicato un articolo di Angelo Aquero in cui si annuncia la vendita del Chelsea Hotel di New York e in cui, essendo il quotidiano di Zucconi, l'autore si dedica soprattutto alla celebrazione del luogo e a tutto ciò che di mitico ed evocativo rappresenta, tra I remember you well in Chelsea Hotel di Leonard Cohen citato almeno tre volte, Nico e Marc Twain, Syd e Nancy e Thomas Wolfe, e i due Dylan, prima il poeta e poi il cantante che al poeta ha rubato il nome. La cosa mi ha colpito, perché due anni fa sono stato al Chelsea Hotel e lì ho pure scattato delle foto, tipo quella che si vede qui a fianco. Ci sono andato, naturalmente, perché ero cresciuto come tanti con quel nome nelle orecchie, con quel sogno solo americano di rendere glorioso un albergo, e una volta giunto lì, al 222 della 23a West, ho visto delle targhe celebrative, una hall polverosa piena di gente vestita male, un arredo raffazzonato che faceva pensare all'ingresso di un rifugio di montagna e in generale un clima da post-impero che non aveva nulla di particolare, se non il ricordo del ricordo; se non il racconto che di quel posto altri ne avevano fatto.
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