Siccome è in giro il n. 499 di
Cineforum, e siccome non ho tempo per scrivere le solite menate, copioincollo la mia lunga recensione di
Post mortem che questo mese apre la rivista. Per chi volesse, però, da leggere su carta è molto meglio. E soprattutto, si recuperi il film, che è una delle cose migliori del 2010, guarda caso assente da tutte le classifiche lette nelle scorse settimane. Buona lettura.
Anche nel suo secondo film Pablo Larraín non ha saputo resistere alla forza che lo trascina verso il centro della sua ispirazione e che rappresenta il centro stesso della storia cilena. Post mortem nasce dalla medesima ossessione che faceva di Tony Manero uno psicodramma tragico e grottesco e che ancorava l’identità del Cile contemporaneo alla realtà ineludibile della dittatura militare. Riprende perciò gli anni ’70, affronta nuovamente il colpo di stato di Pinochet e il conseguente clima di paura e di morte per le strade di Santiago, ma non sceglie una metafora che faccia da schermo e da filtro per l’interpretazione, bensì va dritto al cuore del trauma, agli eventi del settembre 1973 che portarono al rovesciamento del governo socialista regolarmente eletto e all’insediamento di una giunta militare tramite colpo di stato e uccisione del presidente in carica Salvator Allende.
Il Cile di oggi, per l’anima senza pace di Pablo Larraín, non può che ripartire da lì, da un riferimento usurato ma mai del tutto superato, ancora in grado di soffocare l’immaginario di un paese e condannarlo a una sete di narrazione e mitologia che porta ad aggrapparsi a qualsiasi evento di portata nazionale, alla tragedia di uno dei terremoti più devastanti della modernità o alla favola per fortuna a lieto fine dei minatori sepolti vivi dal crollo di una galleria sotterranea. La calamita della Storia, però, è più forte del desiderio di ripartire, continua ad attirare vittime ignare perché figlie di un compresso mai accettato eppure pienamente realizzato: il compromesso, cioè, con l’idea che la dittatura militare sia il momento fondativo della moderna società cilena e che lo sfascio collettivo messo in scena da Tony Manero, ambientato nel 1978 a dittatura ormai consolidata, non fosse altro che la resa al parassitismo culturale della società globale, prona ai modelli del capitalismo in quel caso perfettamente incarnati dall’eroe di John Travolta.
Per Larraín, nato nel 1976, tre anni dopo la morte di Allende, la violenza sia esplicita sia invisibile dell’era Pinochet è una condizione prima di tutto naturale, un peccato originale inconfessabile ma necessario, perché unica realtà esistente per il suo paese e per le persone della sua generazione. La colpa sta proprio nell’ineluttabilità di questo destino, in una condizione tanto storica quanto naturale di cui Larraín si sente partecipe e che sta alla base dell’antropologia negativa dei suoi due film idealmente quasi indistinguibili.
Post mortem, dunque, è l’intera vita della società cilena, assuefatta e non più scandalizzata dalla morte e abbandonata al rumore sordo della propria indifferenza: come succede a un medico specializzato in autopsie, all’infermiera sua assistente o all’impiegato addetto alla trascrizione dei risultati, ma non per motivi scientifici, bensì esistenziali. Lo sconforto e l’abbandono sembrano possedere lo stesso Larraín e il modo con cui osserva impietrito la realtà del suo paese: in fondo già in Tony Manero allestiva senza battere ciglio la disumana violenza del suo eroe triste e stupido, mentre ora, con Post mortem, sceglie di aggiungere il potere alla stupidità, facendo di Mario, il suo nuovo uomo senza qualità che prova a prendere in mano il proprio destino, un fascista provetto, indifferente, violento e ambizioso come il Mark Zuckerberg immaginato da David Fincher in The Social Network e posto a modello delle nuove forme di ricchezza e controllo.
Eppure, al fondo di questo percorso di spietata autoanalisi, Larraín trova la forza di reagire. Non ci sta, non si arrende, attesta l’esistenza del male come fondamento etico del suo popolo, ma si chiede come esorcizzarlo, prosegue nel buio della Storia per arrivare al punto di partenza della spirale che fino a questo momento, in una filmografia che dopo soli due film è già considerata d’autore, lo ha trascinato verso il basso e la perdizione.
Larraín sa benissimo dove vuole arrivare, sa benissimo qual è il rimosso collettivo della sua nazione: solo ci vuole arrivare preparato, e soprattutto vuole preparare il suo pubblico. Per farlo gira attorno al problema, gli si avvicina a tentoni, gioca coi tempi di attesa e di preparazione, fa capire ma non mostra e si limita a suggerire (quanto somiglia l’immagine del dottore con l’elmetto all’ultima foto esistente di Allende, schiacciato dal casco militare e impaurito dalla prossimità della morte?): si capisce fin da subito dove si arriverà, ma non quando e non come. Sembra Hitchcock, e un po’ lo è, perché la morte gioca un ruolo decisivo e il corpo di Allende sottoposto ad autopsia emerge come un McGuffin spaventoso, il corpo attorno a cui tutto ruota e che tutto quanto annulla, ennesima vita sacrificata alla naturale propensione al male dell’umanità, ma prima vittima di quella perversione della violenza che Larraín identifica con la dittatura fascista.
Ossessivo e magari pure passatista (chissà se pure da loro c’è qualcuno che lo accusa di rinvangare vecchie storie e dare una brutta immagine del Paese all’estero), Larraín non si dà pace per una colpa che la società cilena incarna pienamente e nella quale non può non riconoscere la propria origine. La sua antropologia negativa da naturale si fa storica, le colpe da collettive diventano singole e si stagliano in un contesto politico, culturale e in questo caso sentimentale che trova nella violenza l’unica risposta al cambiamento e all’incomprensione.
Il corpo morto di Allende, il corpo di stato che finalmente Larraín mette all’origine del suo cinema, con la sua presenza magnetica e irrimediabile realizza il vero obiettivo del regista: la messinscena della coscienza sporca di un intero paese, l’incontro con il rimosso che ogni giorno ritorna sotto altre forme. In questo senso, la sua operazione non potrebbe avere un valore più cinematografico, con un corpo umano che si trasforma in correlativo oggettivo dalle infinite implicazioni storiche ed etiche che coinvolgono un’intera nazione. Oltre l’incontro con il fantasma reale e immaginifico della storia cilena, Larraín non può e non vuole andare: per questo c’è da augurarsi che Post mortem sia il suo ultimo film dedicato alle vicende successive al golpe del settembre ’73 e per questo, nello specifico del film, dopo la scioccante scena dell’autopsia dell’ex capo di stato egli si affida alla ripetizione, all’accumulo e all’immobilità.
La sua ricerca trova un approdo, ma non una palingenesi; la lucidità con cui affronta il cuore nero del suo paese giudica ma non redime, osserva ma non modifica. L’accumulo di cadaveri nell’ospedale di Santiago è pari all’accumulo di detriti con cui Mario, nel finale del film, realizzato con uno piano fisso infinito e irrimediabile, seppellisce vivi Sandra e il suo amante. Persone e oggetti sono posti sullo stesso piano, la follia del potere genera la follia dei singoli e l’indifferenza con cui i militari uccidono uomini e donne si ripercuote nella premeditazione con cui Mario uccide il suo amore, e prima ancora nella spietatezza con cui quest’ultima masturba il suo salvatore per ottenere favori e protezione. Il pubblico si fa privato, proprio come si diceva nelle piazze italiane negli stessi anni del colpo di stato cileno, ma finisce per stravolgerne ogni valore e travolgere la vita di chi è coinvolto nelle trame delle Storia. La politica si presenta nella vita quotidiana come presenza invadente e usa la violenza come unico linguaggio comprensibile: un aspetto, quello della forza schiacciante dello Stato rispetto al singolo, che nei nostri anni sembra dimenticato o superato nel nome della liquidità sociale o della presunta «fine della Storia», ma che Larraín ripropone come principale eredità storica del XX secolo e radice ineluttabile del presente.
Dalla violenza veniamo, insomma, e alla violenza ritorniamo come attirati da un centro che conosciamo, ma di cui abbiamo dimenticato volto e nome. Il discorso vale non solo per il popolo cileno, ma pure per il nostro, intrisi come ancora siamo del sangue delle stragi di stato e degli omicidi del terrorismo. Gli anni di piombo, infatti, hanno rappresentato per l’Italia una confluenza di derive pubbliche e private analoga a quella realizzata dalla dittatura militare di Pinochet, una spirale di morte e paura che ha anch’essa trovato al fondo del proprio percorso un corpo da uccidere e rimuovere idealmente: quello di Aldo Moro, naturalmente, che attraverso un film come Buongiorno, notte ritorna come riferimento principale della presenza di Allende in Post mortem.
Anche là, in Buongiorno, notte, Bellocchio si avvicinava al corpo violentato di un uomo di potere per cercare una liberazione che nessun evento storico ha saputo attuare. E la trovava, infine, in uno scandalo visivo uguale e opposto a quello messo in scena da Larraín, in una passeggiata per le strade di Roma dell’ex presidente della DC, all’alba di un nuovo giorno impossibile. Un sogno, nient’altro che un sogno, ma anche un modo, il solo che il cinema possa realizzare, per far uscire il nostro paese dallo stesso cul-de-sac in cui sembra intrappolato il Cile di Pablo Larraín e per il quale al momento non esiste possibilità di salvezza da mandare in diretta televisiva mondiale.
un articolo magistrale, degno di un film magistrale...
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