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lunedì 21 febbraio 2011

Lettera dal carcere

A Berlino ha vinto l'unico film che doveva vincere, il migliore insieme a quello di Béla Tarr, il più adatto ai tempi che viviamo, a quello che ci interessa sapere di uno dei Paesi chiave del futuro. Jodaieye Nader az Simini di Asghar Farhadi è un (quasi) capolavoro che sarebbe sicuramente piaciuto a Panahi, che come tutti sanno è stato inserito nella giuria del festival come gesto politico contro la sua incarcerazione. Distratto dalla visione dei film, nei giorni scorsi non ho mai trovato il tempo di leggere la lettera aperta che dalla prigione il regista ha scritto per la Berlinale: un testo commovente, carico della fierezza di un uomo a cui è stata sottratta la libertà di muoversi ed esprimersi, ma non di sognare e pensare. La si può leggere sul sito della Berlinale, ma per comodità la incollo qui sotto, consapevole che al regime iraniano di quello che pensiamo noi occidentali di Jafar Panahi non importa nulla, ma confermato nell'idea che forse il cinema può ancora servire a qualcosa. Ecco:

"The world of a filmmaker is marked by the interplay between reality and dreams. The filmmaker uses reality as his inspiration, paints it with the color of his imagination, and creates a film that is a projection of his hopes and dreams.

mercoledì 16 febbraio 2011

Nader e Simin

Dopo Béla Tarr, finalmente un altro film in concorso degno del posto in cui sta: Jodaieye Nader az Simini (titolo internazionale: Nader and Simin, a Separation) di Asghar Farhadi, l'autore del notevole About Elly. Come il suo predecessore, anche questo film racconta della borghesia di Teheran - la colta e benestante borghesia occidentalizzata della città - e dei suoi drammi privati trasformati in tragedie civili. E come in About Elly, anche in Nader and Simin, a Separation la disamina di un evento centrale costruisce l'intero film, con le diverse versioni di ogni personaggio che si scontrano le une contro le altre, ma soprattutto sbattono a vicenda contro le regole scritte e non scritte di una società lacerata dalla sue stesse contraddizioni. Farhadi non ci va leggero con il regime, ma la struttura del suo film nasconde le accuse e mostra solo le conseguenze: uomini e donne agiscono, sbagliano, attaccano, si difendono, hanno dubbi, fragili certezze, ma tutto si disperde in un mondo che come prima colpa ha quello di non essere in grado di evolvere con la stessa rapidità delle persone che vorrebbe controllare. La religione c'è, la libertà pure, la legge che sa ascoltare anche, ma tutto sembra inutile, ogni cosa disperde le proprie ragioni in un mare di altre ragioni. E così l'accusa più diretta al regime iraniano è proprio quella che mette all'indice la sua debolezza, peggio ancora la sua assenza. Non credo lo vedano di buon occhio da quelle parti, un film come questo: chissà cosa ne penserebbe Jafar Panahi, se solo la sua presenza in giuria, qui alla Berlinale, fosse qualcosa di più concreto di un semplice e inutile gesto politico.