A Berlino ha vinto l'unico film che doveva vincere, il migliore insieme a quello di Béla Tarr, il più adatto ai tempi che viviamo, a quello che ci interessa sapere di uno dei Paesi chiave del futuro. Jodaieye Nader az Simini di Asghar Farhadi è un (quasi) capolavoro che sarebbe sicuramente piaciuto a Panahi, che come tutti sanno è stato inserito nella giuria del festival come gesto politico contro la sua incarcerazione. Distratto dalla visione dei film, nei giorni scorsi non ho mai trovato il tempo di leggere la lettera aperta che dalla prigione il regista ha scritto per la Berlinale: un testo commovente, carico della fierezza di un uomo a cui è stata sottratta la libertà di muoversi ed esprimersi, ma non di sognare e pensare. La si può leggere sul sito della Berlinale, ma per comodità la incollo qui sotto, consapevole che al regime iraniano di quello che pensiamo noi occidentali di Jafar Panahi non importa nulla, ma confermato nell'idea che forse il cinema può ancora servire a qualcosa. Ecco:
"The world of a filmmaker is marked by the interplay between reality and dreams. The filmmaker uses reality as his inspiration, paints it with the color of his imagination, and creates a film that is a projection of his hopes and dreams.
The reality is I have been kept from making films for the past five years and am now officially sentenced to be deprived of this right for another twenty years. But I know I will keep on turning my dreams into films in my imagination. I admit as a socially conscious filmmaker that I won’t be able to portray the daily problems and concerns of my people, but I won’t deny myself dreaming that after twenty years all the problems will be gone and I’ll be making films about the peace and prosperity in my country when I get a chance to do so again.
The reality is they have deprived me of thinking and writing for twenty years, but they can not keep me from dreaming that in twenty years inquisition and intimidation will be replaced by freedom and free thinking.
They have deprived me of seeing the world for twenty years. I hope that when I am free, I will be able to travel in a world without any geographic, ethnic, and ideological barriers, where people live together freely and peacefully regardless of their beliefs and convictions.
They have condemned me to twenty years of silence. Yet in my dreams, I scream for a time when we can tolerate each other, respect each other’s opinions, and live for each other.
Ultimately, the reality of my verdict is that I must spend six years in jail. I’ll live for the next six years hoping that my dreams will become reality. I wish my fellow filmmakers in every corner of the world would create such great films that by the time I leave the prison I will be inspired to continue to live in the world they have dreamed of in their films.
So from now on, and for the next twenty years, I’m forced to be silent. I’m forced not to be able to see, I’m forced not to be able to think, I’m forced not to be able to make films.
I submit to the reality of the captivity and the captors. I will look for the manifestation of my dreams in your films, hoping to find in them what I have been deprived of.
PS: il tizio che con sta alla cima del post è Yilmaz Güney, regista e attore turco di origine curda morto a Parigi nel 1984, dopo aver finalmente ritrovato la libertà di vivere e fare cinema. Vera e propria star del suo paese, Güney ha passato gran parte della sua carriera in prigione, prima all'inizio degli anni '60 per aver pubblicato un romanzo giudicato comunista, poi quasi ininterrottamente dal 1972 al 1981 per la militanza anarchica nel Fronte di liberazione del popolo turco. Negli anni di prigionia, Güney è stato uno straordinario esempio di resistenza al potere: non ha mai smesso di fare cinema, scrivendo sceneggiature e soprattutto dando istruzione precisissime al suo assistente, Serif Gören, che dirigeve le riprese dei film da lui pensati. Fuggito di prigione nel 1981 (pare con la barca di Volontè), Güney vinse la Palma d'oro a Cannes nel 1982 con il capolavoro Yol, che portava ancora la firma sua e di Gören, e poi ebbe ancora il tempo di girare da sé La rivolta (1983), raccontando in forma semiautobiografica la violenza della prigionia. Il suo caso dovrebbe oggi tornare d'attualità, se ancora qualcuno ricordasse i suoi film: due anni fa il Festival del cinema europeo di Lecce gli ha dedicato una retrospettiva curata da Massimo Causo ed ha anche pubblicato un testo, il primo in Italia, a lui dedicato: Yilmaz Güney - Liberare il cinema. Lo si trova qui, è molto bello, lo consiglio.
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