A Berlino ha vinto l'unico film che doveva vincere, il migliore insieme a quello di Béla Tarr, il più adatto ai tempi che viviamo, a quello che ci interessa sapere di uno dei Paesi chiave del futuro. Jodaieye Nader az Simini di Asghar Farhadi è un (quasi) capolavoro che sarebbe sicuramente piaciuto a Panahi, che come tutti sanno è stato inserito nella giuria del festival come gesto politico contro la sua incarcerazione. Distratto dalla visione dei film, nei giorni scorsi non ho mai trovato il tempo di leggere la lettera aperta che dalla prigione il regista ha scritto per la Berlinale: un testo commovente, carico della fierezza di un uomo a cui è stata sottratta la libertà di muoversi ed esprimersi, ma non di sognare e pensare. La si può leggere sul sito della Berlinale, ma per comodità la incollo qui sotto, consapevole che al regime iraniano di quello che pensiamo noi occidentali di Jafar Panahi non importa nulla, ma confermato nell'idea che forse il cinema può ancora servire a qualcosa. Ecco:
"The world of a filmmaker is marked by the interplay between reality and dreams. The filmmaker uses reality as his inspiration, paints it with the color of his imagination, and creates a film that is a projection of his hopes and dreams.