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domenica 21 settembre 2014

Piccolo e Maresco: metterci la faccia o sparire























Un paio di giorni fa Francesco Piccolo ha tenuto un incontro nella mia città, e sono andato ad ascoltarlo. Il desiderio di essere come tutti, che due mesi fa ha vinto lo Strega, è un libro che in rigorosa sequenza mi ha fatto prima incazzare, poi divertire, poi riconoscere e infinire pensare che andrebbe letto da chiunque abbia mai votato sinistra nella sua vita, o abbia a cuore una buona fetta di persone che fanno parte di questo Paese. Perché riguarda il rapporto tra la storia personale e la storia collettiva di ciascun cittadino, perché affronta la relazione fra pubblico e privato negli anni del berlusconismo, perché cerca e trova in modo onesto colpe e responsabilità alla base dello scollamento fra la sinistra e il paese reale almeno a partire dalla morte di Berlinguer in poi.

Piccolo è di sinistra, prima ancora è stato comunista, e nel suo libro salda la storia privata e politica di ragazzo casertano di origini borghesi alla storia dell''Italia dai primi anni '70 a oggi. Nel Desiderio di essere come tutti ci sono il compromesso storico e gli anni della giovinezza a Caserta, lo scoppio del colera in Campania e il liceo, la sinistra extraparlamentare e gli amori fallimentari, i dubbi e le paure durante il rapimento Moro e le liti con il padre missino, la morte di Berlinguer e le serata in discoteca con gli amici, il terremoto dell'Irpinia e il trasferimento a Roma, l'arrivo di Berlusconi, l'incontro con la futura compagna e l'errore del voto a Rifondazione comunista nel '96...

Piccolo
parla di autobiografica, ovviamente, la sua è un'indagine personale che a forza di ragionamenti e sillogismi risale alle origini ideali di una persona colta e consapevole; ma è evidente che nel suo libro c'è qualcosa di più, c'è un ricoscimento da parte del lettore - o meglio, da parte del lettore di sinistra - che trasforma la lettura in una seduta di terapia comune, un'analisi che riguarda una buona fetta di elettorato italiano, non solo quello che un tempo fu comunista, ma forse quasi tutto quel 41% raccolto da Renzi alle ultime elezioni europee. La vita personale di Piccolo è insomma un pretesto lettarario, un modo per parlare dello spirito di una nazione, e non dello spirito del tempo (lo spirito del tempo presente, quello che Hegel vedeva passare sotto la sua finestra...) perché in realtà quello di Piccolo è un libro propedeutico per il presente, ma rivolto a un passato da rivendicare, accettare ed eventualmente dimenticare.

In questo dialogo costante fra pubblico e privato, fra individuo e società, l'elemento chiave resta quello personale, la scelta narcisista e in fondo onesta di elevarsi a protagonista di un modello di vita raccontato come unico, esemplare ma in realtà esposto al riconoscimento e al giudizio collettivo. Piccolo, insomma, ci mette la faccia, non si nasconde, racconta fiero e pure un po' furbetto le sue origini ideali (la scelta di diventare comunista dopo un gol della Germania est contro la Germania dell'ovest ai Mondiali del '74 sa in effetti un po' di controstoria a posteriori...), i suoi sbagli e le sue sconfitte.

E' evidente che si tratta di un lavoro su di sé, e pure di un lavoro sano, utile, umile e per molti versi coraggioso. Eppure, in ogni pagina del Desiderio di essere come tutti, nei suoi ragionamenti contorti e perfetti, quasi Piccolo si sforzasse di inserire la sua vita in un modello deciso a priori (e non è detto che non sia così, o che sia sbagliato), è evidente la sensazione dello stesso autore che mettersi in prima persona di fronte al lettore non basta, che qualcosa manca sempre. O forse che qualcosa è di troppo, perché quando Piccolo decide di sviscerare in stile scuola Holden un racconto di Carver, Con tanta di quell'acqua a due passi da casa, quello che implicamente ammette è che alla sua prosa manca proprio la nettezza di stile dello scrittore americano, le sue frasi scarnificate, la capacità di inserire in un solo rapporto di coppia, in una sola vicenda tanto banale quanto orribile, il miscuglio di colpe e responsabilità, bassezze e buone intenzioni che Il desideri di essere come tutti impiega duecento e passa pagine e quarant'anni di vita ad affrontare. E' evidente, insomma, che a Carver riesce quello che Piccolo non può, non vuole o non sa fare: nascondersi nella sua storia, lasciare che sia la realtà a parlare, e non la sua ricostruzione.

Piccolo è onesto, ma prolisso, inevitabilmente prolisso, perché nel suo lavoro d'analisi deve spiegare, capire, cambiare. Dice le cose che vanno dette, le cose che ogni lettore di sinistra dovrebbe leggere e sapere, ma il suo percorso autobiografico viene prima della conoscenza del mondo; si rivolge al futuro, ma ancora spaventato dal presente e aggrappato al bisogno di ripercorrere il passato. Il presente manca, perché Piccolo non sa ancora come raccontarlo; nel presente dovrebbe nascondersi, come Carver nei suoi racconti, e cercare attraverso la conoscenza dell'altro, del diverso da sé, quel volto sconosciuto del paese che è il vero convitato di pietra del suo lavoro, la tessera mancante di una vita piena, dignitosa, ma a tratti fallimentare.
















È facendo questi ragionamenti che mi è venuto come la cosa più simile a Il desiderio di essere come tutti vista o letto quest'anno sia Belluscone - Una storia siciliana, in cui Franco Maresco cerca allo stesso modo di inseguire un mondo inafferrabile e incomprensibile, un mondo - quello dei rioni palermitani dominati dalla mafia, dal mito di Berlusconi e dalle note dei cantanti neomelodici - che per quanto osceno, stupido e pure criminale, resta pur sempre vicino, italiano pure lui, e quindi da conoscere e affrontare.

Quello che fa Maresco, però, è incredibilmente speculare a quello che fa Piccolo: cioè si nasconde, si sottrae all'occhio dello spettatore, sparisce letteralmente dal film, sia comparendo come semplice voce fuori off, sia facendo perdere le proprie tracce, con la ricerca di Tatti Sanguineti che fa da impossibile tentativo di riordinare una realtà dissestata.

In Belluscone Maresco ammette una sconfitta epocale, una sconfitta personale, politica e collettiva. L'orrore grottesco del suo celebre mondo cinico si è fatto norma, potere, lingua sgrammatica ma popolare, e l'autopsia dal vivo che effettua sulla propria terra e su di sé - un sé disperso e ammutolito - è terribile. Eppure a me sembra che Maresco insegua sì un orrore comico e drammatico, ma pure un'Italia colpevole ed esistente, umana e diretta. Senza ottimismo o il suo contrario, senza costruzioni o giudizi, Maresco si arrende al reale e al suo mistero; lo osserva ancora, lo interroga anche, ma rinuncia alla possibilità di dargli un ordine. L'ordine, come fa Piccolo, lo si fa sulla propria vita - ed è già qualcosa. Mentre per Maresco restano solo il confronto e lo sguardo muto, e francamente non so quanto tutto ciò sia pessimista (o nel caso di Piccolo ingenuo), o semplicemente inevitabile e definitivo. Quella mostrata da Belluscone è in fondo la stessa Italia con cui Piccolo si rammarica di non essere riuscito a dialogare, l'Italia che ha dominato in questi ultimi vent'anni senza alcun problema di coscienza e di conoscenza.

La vera questione, allora, non è dove stiano il giusto e lo sbagliato. La vera questione è quando questo altro mondo, pure in una versione meno eccessiva e corrotta di quello di Maresco, comincerà a essere incontrato e compreso. Il desiderio di essere come tutti e Belluscone, una storia siciliana sono allora in qualche modo uniti, l'uno il lato mancante dell'altro: il secondo la prosecuzione autodistruttiva ma inevitabile del primo; il primo la versione volenterosa del secondo.

Il paese e il tempo presente restano lì, incomprensibili e sbagliati, ma tocca al singolo raccontarlo e incontrarlo, in uno sforzo gigantesco per far parte del tutto, in prima persona o disperso nell'aria. Questa che viviamo, in fondo, non è altro che la nostra storia di italiani, finalmente libera del piatto di grano, sporca ma non idealizzata, ridicola e nonostante tutto autentica.

lunedì 7 febbraio 2011

TFF 2011

Oggi il Torino Film Festival ha annunciato la retrospettiva della sua prossima edizione, la ventinovesima, che si terrà dal 25 novembre al 3 dicembre prossimi (lo so, manca un casino di tempo, ma certe cose è meglio iniziarle da subito). Il regista a cui è dedicata è un gigante e non so da quanto tempo non si fanno vedere tutte le sue opere insieme: è il tizio qui di fianco, Altman certo, morto purtroppo cinque anni fa. Di roba pazzesca ne ha fatta parecchia, di robe trascurabili anche, ma il suo stile, quella cosa leggera, naturalista, perfida e lucidissima, era evidente anche quando sbagliava film (e poi i suoi film sbagliati erano pur sempre suoi, e qualcosa di figo, tipo la tempesta in Conflitto d'interessi, lo trovavi sempre). Questo, ad esempio, è uno dei migliori che ha fatto, bello tutto, non solo a momenti, anche perché di mezzo c'erano i racconti di Carver. E questa è forse la scena più famosa del suo cinema. Se ne riparlerà: buona visione oggi e tra qualche mese.

sabato 29 gennaio 2011

Winesburg, Ohio, Stati Uniti, Terra

Vagando sul sito di Einaudi, ho scoperto che dopo le ristampe di tutti i lavori di Salinger e dopo la riedizione di un grande libro fino a ieri caduto nell'oblio, La freccia del tempo di Martin Amis (su cui ci sarebbe da scrivere per giorni interi), ora la casa editrice torinese ha rimesso in circolo un altro capolavoro imprescindibile, la raccolta di racconti di Sherwood Anderson Winesburg, Ohio. Un libro bellissimo, fatto di tante e piccole storielle tristi che fermano nel tempo la vita molle della provincia americana, che esaltano attraverso una simbologia universale l'anonima realtà di un mondo che non ha niente da dare, se non la propria cruda realtà. Dalle parole che commentano il volumetto scopro che Bukowski considerava Anderson "il più bravo a giocare con le parole come fossero pietre, o pezzi di roba da mangiare", mentre leggendo Una storia di amore e di tenebra di Oz avevo scoperto che erano stati proprio i racconti di Winesburg, Ohio, i "foglietti di carte nelle tasche", come ben sa chi l'ha letto, a far capire al grande scrittore israeliano che era della propria terra e delle proprio piccole cose che doveva scrivere, se voleva riferirsi alle cose grandi e alla Terra, quella con la maiuscola, su cui poggiamo i piedi. Quando poi lo scorso anno ho letto Indignazione di Roth, ambientano non a caso, credo, presso il Winesburg College, dietro il nome del locale in cui lavora Marcus Messner, la New Willard House, avevo riconosciuto uno dei tanti e piccoli protagonisti di Anderson, George Willard. Insomma, si tratta di un libro fondamentale, un antesignano del minimalismo, capace, come Carver in seguito, di raccontare con voce sussurrata e potente l'universalità degli angoli più nascosti di una grande nazione.