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venerdì 3 febbraio 2012

Somma zero

Ricordate lo Zuckerberg di The Social Network, il nervosismo dei suoi movimenti, le parole sparate a raffica, le conversazioni dal vivo gestite come botta e risposta da chat e, in generale, il tentativo disperato di redimere con la moltitudine del virtuale il fallimento delle relazioni umane? Ecco, Fincher ha girato Millenium - Uomini che odiano le donne come se fosse la conversazione tra Zuckerberg e la fidanzata che apriva il suo lavoro precedente: nervosa, esagitata, sul punto di esplodere. Il film non si ferma un attimo, per due ore e quaranta monta una scena dopo l'altra a ritmo sostenuto, riprendendo il proprio movimento forsennato nella velocità dei movimenti di Lisbeth, che ovviamente è la segreta detentrice del racconto, che cammina, osserva, spia, indaga, scopre, dando sempre l'idea di saper quel che fa, di non fallire il colpo, come se a ogni sua azione ne seguisse una della stessa entità, il cui esito è stato previsto e determinato. Il cinema di Fincher questa volta si fa razionale e infallibile, laddove, al contrario, Zodiac si costruiva sulla supposizione incerta di un detective, sui fatti mai riscontrati di una trama omicida realmente avvenuta. Non per questo, però, Uomini che odiano le donne poggia su un impianto solido e preciso: anzi, viene  il dubbio che l'agitazione che si respira per tutto il film sia creata appositamente per mascherare il nulla dietro una trama prevedibile. Sarà un caso che nella sequenza chiave del film, quella in cui Blomqvist arriva a capire l'identità del colpevole, altrettanto faccia Lisbeth, ma da un'altra parte però, e che dunque il risultato dei dieci minuti di montaggio alternato sia la stessa conclusione raggiunta dai due detective, personaggi simmetrici e uno l'annullamento dell'altro? No, non credo sia un caso. Uomini che odiano le donne è un film sul doppio e sulla ripetizione come unica risorsa del racconto contemporaneo: racconto che, infatti, manca quasi del tutto, che porta nello stesso posto in cui si è sempre stati, che nasce da una sostituzione e che a un certo punto incontra la propria soluzione e nemmeno se ne accorge. Credo insomma che quello di Fincher sia, nel bene e nel male, il perfetto thriller dei nostri tempi, la somma zero alla fine di un movimento eccessivo in cui ogni scena o addirittura sequenza è anestetizzata dalla seguente. Come Lisbeth, che non fallisce mai, che sa sempre tutto, che non conosce ostacoli, ma resta sempre sola.

mercoledì 10 novembre 2010

The Social Network di David Fincher

Tra due giorni arriverà nelle sale italiane The Social Network, a un mese dall'uscita americana e a una settimana dall'anteprima doppiata del Festival di Roma. Su questo blog ne avevo parlato qui, senza ancora averlo visto, prendendomela con l'uso arbitrario di un paio di aggettivi della lingua inglese e italiana. Ora che il film l'ho visto, e l'ho messo come testata qui sopra, ne parlo ancora, quasi sicuro che sarà ricordato come una delle opere-specchio dei nostri tempi. Un film, cioè, impotente di fronte alla nullità devastante della sua materia, che assorbe in un torrente di parole e in un intreccio inesistente l'inconsistenza materiale della rivoluzione di Facebook. Non è visivamente bello, non è narrativamente avvincente, per qualcuno magari sarà pure una gran palla. Ma proprio per queste ragioni, è un filmdellamadonna. E' un abisso dello sguardo cinematografico di fronte alla profondità inesistente di internet, mondo folle e inarrestabile come il guasto alle linee telefoniche impazzite di La scopa del sistema di Foster Wallace, che alla fine del libro inghiottivano le persone e le loro parole e le trasformavano in nulla, nella frase spezzata dell'ultima battuta incompleta del libro, in una parola assente e per questo totale, tutto e negazione della sua totalità (ed era il 1987 e quel genio anticipava di dieci anni il mondo che avremo tra le mani nei prossimi due secoli).

sabato 25 settembre 2010

Even Darker Than You Thought

Ieri ho letto sulla versione on line di Newseek una bella recensione di The Social Network, il film di David Fincher sul creatore di Facebook Mark Zuckerberg, uscito ieri in America (da noi l'11 novembre, tanto per non smentirci). L'autore Jeremy Carter parte con una citazione da Piccola città di Thorton Wilder per riflettere su quanto i social network siano la realizzazione delle paure più intrinseche della nostra società: la solitudine che accompagna l'indipendenza e il disagio che accompagna la libertà (“the loneliness that accompanies independence and the uneasiness that accompanies freedom"). Il punto di vista è quello del film, naturalmente, che dipingerebbe Zuckerberg come un personaggio solo e disadattato e farebbe di tutto per convincere lo spettatore a non sperare di diventare come lui, nonostante i milioni di dollari guadagnato più o meno casualmente  in dieci anni. Staremo a vedere, quando anche qui uscirà il film.