sabato 25 settembre 2010

Even Darker Than You Thought

Ieri ho letto sulla versione on line di Newseek una bella recensione di The Social Network, il film di David Fincher sul creatore di Facebook Mark Zuckerberg, uscito ieri in America (da noi l'11 novembre, tanto per non smentirci). L'autore Jeremy Carter parte con una citazione da Piccola città di Thorton Wilder per riflettere su quanto i social network siano la realizzazione delle paure più intrinseche della nostra società: la solitudine che accompagna l'indipendenza e il disagio che accompagna la libertà (“the loneliness that accompanies independence and the uneasiness that accompanies freedom"). Il punto di vista è quello del film, naturalmente, che dipingerebbe Zuckerberg come un personaggio solo e disadattato e farebbe di tutto per convincere lo spettatore a non sperare di diventare come lui, nonostante i milioni di dollari guadagnato più o meno casualmente  in dieci anni. Staremo a vedere, quando anche qui uscirà il film.

Quello che mi ha incuriosito è il titolo dell'articolo nella presentazione in home page (lo si trova qui, più o meno a metà): Facebook Movie: Even Darker Than You Thougt, "Il film su Facebook: più oscuro di quanto credessi". Ecco. Quella parola, oscuro: quella parola lì c'è sempre. E sempre usata per migliorare l'idea di una cosa: in questo caso per ribaltare il pregiudizio che si può avere su un'operazione tanto interessante quanto potenzialmente farlocca come questa (chissenefrega, in fondo, di un nerd che ha fatto i miliardi). Ma non è mica l'unico caso.

L'Harry Potter di Cuaron, ad esempio, Harry Potter e il prigionero di Azkaban, sarebbe il migliore della serie perché cupo, indefinito, oscuro (l'ho sentito dire da persone che conosco, potrei chiedere conferma); e l'ultimo Batman di Nolan, The Dark Knigth, per farci ancora appassionare ai supereroi (di cui ne abbiamo chiaramente la balle piene), ci descrive l'uomo pipistrello come, per l'appunto, oscuro, vale a dire misterioso, ombroso, forse malvagio, insinuando un po' di sano dubbio e appagandoci con l'idea che non è più tempo per eroi tutti d'un pezzo, ma per quelli ambigui sì. E poi, ancora, le favole nere, cupe, oscure, di Tim Burton, che hanno conquistato il mondo per la stessa ragione: perché con il suo universo gotico Burton ha raccontato cose da bambini agli adulti, senza che quest'ultimi si sentissero dei completi deficienti e convincendoli pure di vedere qualcosa di profondamente umano e universale. Certo che è universale, santo dio, le fiabe esistono da quanto esiste il mondo: cosa ci sarebbe di tanto originale e avveniristico nel raccontare una storia morale con toni oscuri?

L'aggettivo oscuro, insomma, è uno dei mantra linguistici del nostro tempo, una di quelle figure con cui il discorso da commerciale si fa artistico, la parola d'ordine con cui eleviamo la normalità - o semplicemente la tradizione (delle fiabe, per esempio, o dei fumetti) - a specialità ed eccezione. Non a caso, lo si sente spesso in bocca agli amanti dell'arte popolare (fumetti, per l'appunto, o blockbuster): da un lato si ammette di amare il pop, anzi, di considerarlo la forma di discorso più pura, dall'altro, però, non lo si considera abbastanza credibile e allora lo si tinge di colori neri, indefiniti, oscuri, per renderlo più ambiguo e dunque più interessante. In un certo senso è pure questo il segno della fine di ogni certezza.

1 commento:

  1. però l'avresti dovuto dire in modo oscuro, invece sei stato chiarissimo...

    giantorp

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