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venerdì 1 marzo 2013

Spettatori e lettori, cioè vittime e carnefici

Domenica scorsa hanno assegnato gli Oscar e ha vinto Argo di Ben Affleck, un giochino perfetto e senza sbavature, eroico e contemporaneo, con il giusto miscuglio da anni Duemila tra ricostruzione cromatica del passato, cinismo divertito sul mondo del cinema, elogio nemmeno troppo nascosto della democrazia e indignazione vagamente rispettosa verso una rivoluzione che allora, era il 1979, sembrava in mano ai giovani. Argo è l'espressione canonica di un potere che per esaltarsi si nasconde dietro la riscoperta del genere, che si camuffa da film classico per farci sapere che, sì, gli Stati Uniti fallirono su tutta la linea nella gestione della crisi con Teheran, ma senza che noi lo sapessimo avevano in realtà messo a segno un colpo fenomale, salvo non prendersi il merito per ragioni di Stato e attendere paziente che la Storia si rendesse giustizia da sé attraverso il cinema... Così, caro Affleck, è francamente troppo facile. Così son capaci tutti. Zero Dark Thirty della  Bigelow, ad esempio, raccontando pure lui un'operazione della CIA andata a buon fine, è ben altra cosa (e io non sono certo il solo a pensarlo). Il cinema d'azione della Bigelow si aggiancia al genere - e ci mette l'eroina e l'antagonista, gli ostacoli e gli aiutanti, la lacrima e il rimpianto - ma prima di ogni cosa, accettando senza remore la Storia recente come cronaca che non è ancora documento, ha i piedi ben saldi nel tempo e nel mondo da cui prende vita. La sua indagine su come la CIA ha scovato e ucciso Bin Laden, consapevole dei sospetti che può suscitare, è un confronto aperto con la realtà attraverso cui siamo passati dal 2001 in poi, water boarding e rimpianti dell'era Bush compresi. La Bigelow mette il fatto di cronaca davanti al suo film e fa in modo che il cinema nasca dalla materia grezza che ha tra le mani. Argo, ovviamente, fa il contrario: prende la Storia, la inghiotte con il cinema e la risputa come racconto infiocchettato.

venerdì 8 ottobre 2010

The Town di Ben Affleck

The Town di Ben Affleck, che esce oggi nelle sale italiane, sta tutto nel suo titolo: che significa città, ma non come city, che indica una metropoli, ma come cittadina, paesone, ovvero una figura chiave del cinema americano. Il film è ambientato a Boston, che con i suoi 645.000 abitanti city non è lo mai stata e che con le sue vie pavimentate, i grattacieli discreti e il parco grande nemmeno un decimo del Central Park non sembra quasi all'altezza della sua fama (e qui sarà colpa dell'immagine che ci siamo fatta vedendola attraverso le finestre dello studio di Ally McBeal). Boston per gli americani deve essere come un bel paesone, capitale di quel New England che si ostina a essere diverso dal resto della nazione, un agglomerato di quartieri diviso da collinette e fiumi (e qui è grazie a Clint Eastwood) che ne rendono incerta l'identità. Ben Affleck la conosce bene, ci ha studiato e in parte ci è cresciuto, e in uno dei suoi quartieri popolari, Charlestown, a un quarto d'ora da Harvard per quanto lontano mille anni luce, ci ha ambientato il suo primo film da regista, Gone Baby Gone, e fatto altrettanto con il secondo, arrivando addirittura a definirlo come il microcosmo-universo che tutto comprende e tutto giustifica.