Qualche settimana fa ho letto un libro molto bello, The Buddha in the Attic di Julie Otsuka, in Italia uscito con il titolo Venivamo tutte per mare e tradotto da Silvia Pareschi. Un libro breve e intenso, scritto da un'autrice americana di origini giapponesi con una lingua scarna e profondissima, con alle spalle quello che immagino essere stato un faticoso, mirabile lavoro di sintesi espressiva, una limatura continua dell'ispirazione per arrivare al grado unico della parola, al valore oggettivo, quasi materiale, di un aggettivo, un verbo, un sostantivo, forse anche un avverbio o una congiunzione. E' un romanzo raccontato da più voci che parlano come una sola, una moltitudine di protagoniste femminili che insieme creano un'unica, bellissima anima femminile, capace di abbracciare decenni di dolore, orgoglio, dignità e segretezza. Il libro racconta la tragedia delle ragazze giapponesi emigrate giovanissime negli Stati Uniti per andare in spose a uomini della stessa nazionalità, molto più grandi e mai incontrati prima. Ambientato tra San Francisco e il nord della California, in uno spazio che la voce off collettiva rende una terra onirica, offuscata e sconosciuta, The Buddha in the Attic abbraccia un arco di tempo che va indicativamente dall'inizio del '900 alla Seconda guerra mondiale, quando i giapponesi - uomini, donne, vecchi e bambini, agricoltori e commercianti, lavoratori o delinquenti - vennero segregati nei campi di prigionia. Sull'argomento, che emerge nella storia americana come una pagina polverosa volutamente appallottolata sul fondo di un cassetto, c'è anche un bel film, che non è Benvenuti in paradiso di Parker, ma Littlerock di Mike Ott, un paio di anni fa programmato al Torino Film Festival.
Il libro della Otsuka, al suo secondo romanzo, il primo pubblicato in Italia, è preciso, secco, senza fronzoli, minimalista nello stile, umanissimo nel contenuto. Il fatto stesso che sia scritto da una donna, per me che mi accorgo aver letto pochissima letteratura femminile negli ultimi anni, è già di per sé un'esperienza straniante, dunque significativa, non sempre comprensibile fino in fondo, per una questione di sensibilità, di appartenenza alle cose e alle parole.
Eppure in The Buddha in the Attic c'è un passaggio che descrive qualcosa che riguarda tutti i lettori, uomini e donne che siano, che coglie il senso della diversità, della distanza che corre tra lo sguardo di due mondi distanti e all'apparenza incapaci di comunicare. Una frase che nel breve spazio di una riga illustra quanto possa essere scioccante la lettura, quanto possa farci sperimentare l'alterità e la realtà del mondo.
La dicono, questa frase, idealmente e magicamente all'unisono, le ragazze giapponesi in viaggio verso gli Stati Uniti, fantasticando a proposito del continente sconosciuto che andranno ad abitare: un continente dove gli alberi sono enormi, le pianure vastissime, le donne forti e alte; dove i libri si leggono al contrario e dove il sapone si usa per il bagno. Un continente dove, scrive la Otsuke a proposito delle paure delle sue donne fragili e vere, "the opposite of white was not red, but black".
Ecco, insomma, forse la potenza espressiva di questo passaggio ha un senso solo per me o per chi non ha mai saputo che nella cultura giapponese il rosso è il contrario del bianco, e chissà allora cosa rappresenta il nero. Forse è normale che sia così. Ma The Buddha in the Attic è pieno di momenti illuminanti come questo. Illuminanti da una prospettiva insolita, come una fonte di luce inattesa, da sempre viva, ma mai notata. Anche solo per questo merita di essere letto.
PS: questo post volevo scriverlo già da tempo, ma solo oggi ho trovato la voglia di farlo. Appena pubblicato, poi, ho scoperto che c'era una ragione in più per metterlo on line, fino a qualche minuto fa a me sconosciuta: il fatto cioè che The Buddha in the Attic proprio oggi ha vinto il PEN/Faulkner Award for Fiction, il primo o il secondo riconoscimento letterario più importante negli Stati Uniti. E brava Julie Otsuka.
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