giovedì 29 marzo 2012

La questione dei radical chic (ancora)

E' tornata di gran moda la questione dei radical chic. Grazie a Mariarosa Mancuso, critico cinematografico e letterario di area destrorsa, che su Lettura ha pubblicato un articolo sulla fine del fenomeno, sulla crisi dei programmi di La7 (Guzzanti, Dandini, Bignardi) e su quanto Franzen sia un figo perché in Libertà, da radical chic qual è, se la sia presa, a dire della Mancuso, contro i radical chic, contro la povera Patty Berglund in quanto altoborghese insoddisfatta e alcolizzata, nonostante in gioventù fosse dedita al burgul e alla raccolta differenziata. Il pezzo è di una decina di giorni fa, Bordone ne ha parlato a lungo sul suo blog e, nonostante mi abbia fatto crescere la carogna, volevo soprassedere. Che, infatti, tanto per dirne una, la Mancuso prenda le prima trenta pagine di Libertà a paradigma dell'intero romanzo, quando invece il lavoro di Franzen è molto più profondo e doloroso, non è certo una novità: ne ha scritto qui e qui più di un anno fa. Se mai, poi, qualcuno volesse comprendere il significato dell'espressione "radical chic" potrebbe andare ancora sul blog di Bordone e avere tutte le indicazioni che desidera: la questione è vecchia e ampiamente sviscerata. Ma questa mattina, dopo aver letto questo articolo di Michele Masneri sulla rivista Studio (grazie alla segnalazione di un amico) mi è tornata la carogna e ho ricominciato a rodermi il fegato, a pensare che ai giornalisti di area Foglio piace un sacco modellare la realtà sui loro bisogni di intellettuali lucidi e veggenti e soprattutto piace pensare che l'Italia sia ancora piena di signorotti di sinistra con l'appartamento in centro e la villa a Forte dei Marmi, come negli anni '60, quando Tom Wolfe coniava il termine radical chic, New York era piena di signore miliardarie che flirtavano coi rivoluzionari o di un Leonard Bernstein che invitava nel suo salotto le Pantere nere. Il termine viene da lì, da una società inesistente, tanto era ricca ed esclusiva, che cinquant'anni fa seguiva le mode e le dirigeva forte del proprio potere di persuasione. Eppure per qualcuno esiste ancora, per quanto imborghesito, impoverito e ridimensionato. Per qualcuno è un problema, quando, invero, è una totale astrazione, il trastullo malinconico di un gruppo di intellettuali di destra (e dunque, dal loro punto di vista, indipendenti), che scrivono da fustigatori dei costumi della sinistra, ma per farlo si aggrappano a categorie inesistenti, parziali, ignare del tessuto, questo sì sociale, delle persone che in Italia consumano cultura, e cioè, stando a Masnieri, leggono più di dodici libri l'anno oppure vanno al cinema, scaricano le serie tv e seguono i festival letterari.


Se mai me lo chiedessero, e se i diretti interessati fossero d'accordo, potrei fare i nomi di queste persone. A cominciare da me, per intenderci, trentenne di sinistra, di cultura universitaria, lettore che ha amato Libertà nonostante alla Mancuso piaccia pensare di essere l'unica ad averlo capito, che guarda la tv ma non sopporta Saviano, che apprezza Il post e Luca Sofri ma non tollera la Bignardi, così come non ne può più della Dandini, dei suoi ridolini, di Zoro e del suo romanesco, e chissenefrega se La7 ci prova a essere la nuova Rai 3 di Guglielmi. E che direbbero, poi, i fustigatori della destra milanese se sapessero che gran parte dei miei amici, di sinistra e laureati pure loro, fino a qualche settimana passavano le loro domeniche sere a guardare, non Report ma Tutti pazzi per amore, magari dopo aver letto un libro di Mancuso, non Mariarosa, bensì Vito, che scrive di fede e spesso va a parlare da Fazio, nonostante pure lui, Fazio, faccia una tv di qualità di cui se ne ha ormai abbastanza? Ma, mi chiedo, se mi piace Mancuso deve per forza piacermi anche Fazio? E se leggo Jennifer Egan, siccome la pubblica Minimum Fax, devo sentirmi chic e in colpa oppure, come con Franzen, posso stare tranquillo?

Ecco, insomma, leggendo pezzi come quello della Mancuso o di Masneri, seguendo con un misto di bile e di sberleffo il continuo rosicare della cultura di destra per le debolezze o le controversie della cultura di sinistra (oggi sul Giornale toccava ai blog letterari cadere sotto la mannaia della purezza destrorsa), mi chiedo quali siano gli amici di queste persone, chi frequentino, cosa vedano quando sono sul tram o sulla metro, cosa ascoltino quando sono seduti al cinema, se davvero, da giornalisti quali sono, si sforzino di osservare il mondo, oppure, più semplicemente, convinti di cogliere lo spirito dei tempi, si adattino a prendere delle categorie, possibilmente vecchie, contrapposte e manichee, e ci ficchino a forza la loro realtà, magari trovando talvolta uno spunto autentico, un'idea vera, ma facendola poi seguire da decine di altri fatti parziali e manipolati in malafede, convinti di stare dalla parte del popolo, di scrivere in quanto minoranza e dunque in nome degli esclusi, ché in fondo il mondo va così, lo sanno tutti, quelli di sinistra lo governano e quelli di destra stanno a guardare, quelli di sinistra si lamentano e quelli di destra castigano, peccando pure loro ma consapevoli di farlo e dunque elevandosi dal resto della cricca moraviana perché meno ipocriti e più popolari, cinici non per atteggiamento ma per necessità.

Necessità, è ovvio, che fa comodo per continuare a credere che il mondo sia ancora quello degli anni '60, in cui Tom Wolfe trovava l'espressione del secolo ma di sicuro non pensava che cinquant'anni dopo sarebbe stata ancora al passo coi tempi. Cosa che infatti non è. Punto.

Nessun commento:

Posta un commento