domenica 6 febbraio 2011

Finché dura

Giovedì prossimo comincerà la 61° edizione della Berlinale e magari riuscirò a fare un report giornaliero come da Cannes o Venezia. Le impressioni prima della partenza non sono tra le migliori, perché la penuria di nomi forti in cartellone, lasciando da parte il fatto che nei festival si va a scoprire gente nuova e non a confermare vecchie certezze, fa pensare all'evoluzione dei festival del cinema nell'era del download selvaggio. Prendiamo l’apertura di giovedì, ad esempio: True Grit dei Coen, uno dei film più attesi della stagione, il remake del Grinta che da noi uscirà subito dopo e si chiamerà con lo stesso titolo del western con John Wayne. Ecco, se uno è un po’ smanettone, il film l’ha già scaricato da settimane, e pure con i sottotitoli in italiano, perché negli Usa è uscito a dicembre e tutti ne hanno già scritto e parlato. Lo scorso anno era successa la stessa cosa a Cannes con il Robin Hodd di Scott (che sarebbe uscito il giorno dopo in tutto il mondo) e se Venezia ha poi aperto con Black Swan - e Black Swan è stato parecchio in incubatrice prima di arrivare nelle sale - allora bene per Venezia, bravi loro, perché i tempi in cui la prima di un festival era blindata, con la ressa dei direttori per accaparrarsi il titolo migliore, sembrano proprio finiti.


La cosa certa per il momento è che di fronte a un evidente mutamento della fruizione del cinema i festival non hanno ancora trovato un modo per adeguarsi. Si selezionano un mare di opere, molte più che in passato, si scova gente brava e si offrono sguardi inediti sul mondo – il lavoro di un direttore e dei selezionatori consiste proprio in questo – ma c’è da chiedersi fino a quando una macchina così grossa potrà permettersi un servizio così marginale (per la macchina dello shobiz, dico, mica per il valore del lavoro in sé). Perché se a gioire sono i cinefili e i critici, vale a dire quel migliaio di persone, sempre le stesse, che si incontrano alle proiezioni stampa, un po’ meno, forse, lo fanno gli sponsor, che fino a quando il prestigio di una manifestazione regge perché è antico, tutto bene, ma se per caso un giorno qualcuno aprisse gli occhi e si accorgesse che a Berlino, ad esempio, di divi e grandi nomi, Coen a parte, neanche l’ombra, allora le cose potrebbero cambiare.

Dopotutto lo sappiamo che il cinema d’autore non va d’accordo con i centri commerciali e che forse quello enorme di Potsdamer Platz dove si svolge la Berlinale sarebbe più coerente addobbarlo per Natale tutto l’anno. Se poi, magari, per convincere qualche investitore o direttore di rete si provasse a dire che quest’anno a Berlino ci saranno Béla Tarr, Werner Herzog, Ralph Fiennes e pure Albanese, tanto per citare i nomi più noti (che per molta gente non sono noti), difficilmente si riuscirebbe a essere seducenti. Ci saranno quelli bravi e ancora sconosciuti, come sempre e per fortuna: ma che la macchina non vada avanti con e per loro è persino scontato dirlo.

Il mondo del cinema sta svuotando le proprie vetrine, vale a dire i festival; ma i festival non hanno ancora trovato efficaci contromosse. La qualità di un lavoro fatto con passione e ricerca è l’unica risposta, ma nessuno al momento ha ancora capito come unire ricerca e appeal commerciale. La parabola controversa di Venezia, lo scorso anno su per bellezza e giù per impatto mediatico (e dunque monetario), è in fondo emblematica. Sarebbe facile dire che è meglio così, ma per il momento sarebbe più saggio sospirare un “finché dura”…

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