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lunedì 14 marzo 2011

Prima e dopo

Continuo a guardare filmati dal terremoto giapponese e di conseguenza a farmi domande sul perché non riesca a smettere. La più ovvia riguarda il fascino che tutta quella devastazione racchiude, l'orrore che risplende e le reminiscenze da cinema catastrofico che evoca: ma non c'è risposta al fascino dell'orrore, solo un'impotenza innamorata e colpevole. Semmai, provo a dare una risposta all'ossessione del prima e dopo che vedo nelle gallerie di Repubblica. Questo è quello che c'era prima, questo quello che c'è ora; là dove c'era l'erba, ora c'è il fango, là dove c'era una città, magari tra qualche anno, bonificato il terreno, ci sarà di nuovo l'erba. In mezzo, tra le foto del prima e quelle del dopo, l'immagine mancante, l'immagine che continuiamo a vedere e cercare, quella che cattura il momento dell'arrivo dell'onda e provoca uno shock dell'anima prima che degli occhi. So bene cosa manca lì in mezzo per rendermi soddisfatto fino in fondo; so bene che tutto ciò che ho visto fino a ora è il riflesso di un'assenza, di un rimosso. So bene che se tra il prima e il dopo vedessi delle persone travolte dall'onda, assaporando così il gusto della morte in diretta, la mia bulimia da immagini sarebbe appagata. Le immagini del prima e del dopo aggirano questo folle desiderio, lo evocano senza chiamarlo direttamente in causa. Lo dice anche Roth in Il complotto contro l'America, che sono i vestiti abbandonati nelle case, le valigie dimenticate sul selciato della stazione, a dare il senso di un olocausto. E lo fa vedere Spielberg in La guerra dei mondi, che sono ancora i vestiti lasciati a colare sugli alberi, segno fisico di una morte che ha cancellato il corpo, a racchiudere l'orrore della sparizione. Qui siamo alle prese con lo stesso sentimento: una sparizione che sta tra un prima e un dopo, che vediamo e continuiamo a vedere, ma che non finirà mai di affamarci fino a quando non vedremo per davvero quei cadaveri sulle spiagge.

venerdì 11 marzo 2011

Uno sguardo dal ponte

Le spaventose immagini dello tsunami in Giappone lasciano senza fiato, non c'è molto da dire. Purtroppo, però, c'è molto da vedere: la realtà fisica del muro d'acqua, che al tempo del maremoto a Sumatra nessuno ci fece vedere, se non a disastro compiuto. Qualche mese fa l'ha fatto Clint Eastwood nell'unica scena degna di nota di Hereafter, forse il miglior esempio di utilizzo di effetti speciali visto negli ultimi anni. Lo shock per quello che è successo oggi è come al solito uno shock dello sguardo, come quello che deve aver provato il tizio che si vede verso la metà di questo video, immobile in piedi su un ponte mentre sotto di lui un paio di navi vengono risucchiate dalla corrente. Immobile come se quello che succede vicino a lui non rischiasse di trascinarlo via con tutto il resto, e non solo perché è un giapponese e sicuramente dentro avrà il panico e fuori un'espressione da statua di cera. Per me quella è l'immagine simbolo del disastro, lo sgomento muto di fronte all'incredibile, di fronte al cinema ingolfato nel vero senso della parola dalla realtà: come spettatori increduli, anche le vittime vere non possono far altro che guardare. Tutto quello che abbiamo visto oggi e che vedremo per giorni ancora conferma che ormai non sappiamo fare altro: restare a guardare.