Il dibattito sul valore culturale della vittoria di Vecchioni a Sanremo, che in questi giorni ha tenuto banco su parecchi quotidiani e in tv, è il classico esempio di come in Italia il giornalismo o si arrovella sul nulla o si svegla a combattere per la causa giusta, ma sbaglia cavallo su cui puntare. Può anche darsi come ha detto la Barbara Spinelli che il risultato di Sanremo rappresenti la rivincita della cultura alta contro lo sputtanamento berlusconiano: ma come sempre la soluzione assolutoria arriva solo considerando il problema in maniera superficiale (e dando per scontato che quella di Vecchioni sia una bella canzone, cosa che non è e che dunque fa di questo discorso un inutile sbattimento, viziato alla base da un fraintendimento decisivo: ma tant'è...). Perché se è vero che in Italia esiste una cultura alternativa, non necessariamente di sinistra per quanto riconducibile a quell'area (vedi Libera, ad esempio), è sbagliato costruire delle teorie sociali quando la si ritrova nei palinsesti Rai e ne si registra il successo. Nessuno si meraviglia che l’indignazione di Saviano o l’intervista ad Abbado raccolgano dati d’ascolto stellari: semmai è il contrario. Lo sanno così bene, i dirigenti politicizzati, cosa il pubblico chiede alla tv, che la loro unica preoccupazione è costruire un altro tipo di domanda, riempire cioè i palinsesti di un unico modello culturale, possibilmente disimpegnato e volgare, e poi raccontare la favola del mercato che offre ciò che il popolo chiede. Ma non esiste alcun rapporto causa-effetto: le cose sono molto più semplici. Il mercato dà e il popolo prende. E quando l’offerta è buona, è scontato che la reazione positiva arrivi.