War Horse di Spielberg, che è uscito ieri nelle sale italiane, è un film decisamente inattuale: un drammone anni '50, pomposo e magniloquente, con diverse pause intimiste e silenziose; un racconto di guerra, questa volta la Prima, da una prospettiva privata, che per il regista di Salvate il soldato Ryan significa inscenare lo sfaldamento di una famiglia e la sua lotta per sopravvivere al vento della Storia. Il trauma della separazione è ancora il tema centrale di Spielberg e il ritorno a casa la forma di narrazione naturale. In War Horse c'è un animale magnifico, che sa correre e tirare come nessun altro animale costretto alla guerra, e tanti figli e fratelli e orfani e nonni amorevoli e soldati pietosi che se lo scambiano di mano e lo perdono, lo comprano e lo cedono, ogni volta sacrificando un po' del loro amore: una catena ripetitiva e circolare con cui Spielberg riprende gli schemi del cinema classico, le ripetizioni, le risoluzioni, gli strappi e la riconferma dell'ordine di partenza. Il tutto in due ore e passa di film prevedibile eppure magnetico, con un finale che rappresenta uno dei momenti più eccessivi del suo cinema, un omaggio a John Ford che richiama I cavalieri del Nord Ovest nei colori e Sentieri selvaggi nella raffigurazione del ritorno a casa. La differenza sta nel fatto che per Spielberg una casa pronta ad accogliere l'eroe alla fine della strada c'è sempre e un modo per comunicare - un telefono o un richiamo per cavalli - pure. Semmai ho qualche dubbio sull'opportunità di aggredire l'iconografia del paesaggio europeo con colori così spropositati e violenti da essere affascinanti: una scelta spudorata tanto coraggiosa quanto irritante, che contraddice il pudore dell'intero film, con la morte lasciata fuori campo e la presenza di ciò che resta (i cavalli senza cavalieri, come ai tempi di La guerra dei mondi i vestiti sugli alberi) a ribadirne l'oscenità.
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