Nella città dove sono nato e dove ho vissuto per un mucchio di tempo c'è un festival letterario che da un paio d'anni sta raccogliendo consensi e partecipazioni incredibili, un'iniziativa spontanea di un gruppo di cittadini diventata in poco tempo un punto di riferimento imprescindibile per chiunque nella zona sia interessato alla cultura e alla sua diffusione. Ci ho pensato, a questo festival e alla sua straordinaria capacità di invitare vip e artisti famosi, quando ho visto la campagna pubblicitaria montata attorno a This Must the Place di Sorrentino: una gigantesca opera di beatificazione del regista attraverso la sua opera e soprattutto attraverso le sue emanazioni, i suoi pezzi da giornalista, il suo romanzo di un paio d'anni fa, le sue interviste d'autore. L'ennesimo caso, insomma, di celebrazione dell'artista vip a cui vengono affidate le chiave del potere, riconoscendogli di aver salvato il cinema italiano, di aver superato chi il romanziere lo fa di professione, di aver riportato resoconti appassionanti dei suoi viaggi. Un'esaltazione che secondo me tradisce il disperato bisogno di celebrità e maestri che coviamo in quanto spettatori e utenti della cultura di massa, e che il festival della mia città sfrutta in modo illuminato. Ci aveva già pensato Moretti con Habemus Papam a stigmatizzare la deriva pop che trasforma ogni figura di potere in icona, mentre ora è arrivato Paolo Sorrentino a ribadire il concetto, per quanto in modo molto più compromesso e inconsapevole.
Il suo This Must Be the Place è una riflessione sull’immaginario contemporaneo legato ad alcune icone della modernità, dalla rockstar dark, interpretata da un Sean Penn truccatissimo, irriconoscibile e scioccante quando poi appare nella sua “naturalità”, al paesaggio americano dei grandi spazi aperti.
Come in tutti i film di Sorrentino, lavora sulla distanza tra la realtà e il mondo interiore di un personaggio unico e irripetibile; la stessa distanza che intercorre tra lo spettatore e le immagini di un film, di un’opera d’arte, di una trasmissione televisiva che offre al pubblico la saggezza di un ospite: la distanza del potere mediatico.
Il problema, però, è che Sorrentino non può più permettersi di misurare quella distanza: ora è lui il personaggio unico e irripetibile, l’intellettuale vip per eccellenza, esposto come un trofeo da chiunque ne voglia sfruttare la popolarità.
Che poi, lui, Sorrentino, insieme all’infinita schiera di icone pop da consumo collettivo, giri, scriva o dica cose interessanti, questo conta relativamente: l’importante è esaltare la sua capacità di elevarsi oltre la media, sparando sulle copertine il volto di Sean Penn e raccontando la storia miracolosa della realizzazione del film, con l’incontro tra l’ingenuo regista e la star, con la dichiarazione d’ammirazione dell’attore, il conseguente invio della sceneggiatura e l’inattesa risposta da Hollywood… Letteratura da provincia dell’impero, insomma, con il napoletano piccolo piccolo che diventa la guida dell’americano grande grande: ma quel tanto che basta per costruirci sopra un racconto di intraprendenza e redenzione all’italiana.
Che poi, ancora, This Must Be the Place, in mezzo ad alcune cose buone (c’è David Byrne che canta una canzone pazzesca!), metta sullo stesso piano la caccia a un criminale nazista e l’incontro con l’inventore del trolley, e che questo sia semplice e pretestuosa superficialità, non una citazione dei Coen, viene fatto notare solo in un secondo momento, una volta grattata la superficie lustra della confezione di classe.
Ma quello che conta è proprio la superficie: è l’Autore Sorrentino che gira un film con l’Attore Sean Penn e parla di Olocausto. Se non è Grande Arte questa!
M a v-a-f-f-a-n-c-u-l-o v a
RispondiEliminaBe', mi sembra proprio un bell'atteggiamento quello di mandare a-f-f-a-n-c-u-l-o le persone senza firmarsi. C-o-m-p-l-i-m-e-n-t-o-n-i.
RispondiEliminaRobbe', mi hai colto davvero impreparato con 'sto post. Ho visto il film sabato scorso e temevo davvero ti trovarmi a lanciare oggetti, insulti e fidanzata contro lo schermo, invece ho riso tantissimo e il film è un gran bel pacchetto se escludo gli ultimi 5 minuti e l'inutilità dell'Olocausto (che poi alla fine c'è ma non conta niente, neanche come appiglio per il supposto grande autore). Non ho subito la campagna pubblicitaria (se non i pessimi trailer che mi facevano presagire il peggio) e per Sorrentino non nutro particolare amore. Sono quindi perplesso dal percorso del tuo dire e mi trovo in difficoltà nell'identificare il motivo. Forse perché non ho sentito il peso di Sorrentino?
RispondiEliminaProbabilmente alla base di tutto c'è il fatto che il cinema di Sorrentino l'ho sempre trovato pesante - mai un'inquadratura che non sia ricercata e autoriale - e di conseguenza trovo pesante pure lui e tutto quello che fa. Ma questa volta ho proprio trovato stridente il contrasto tra la pesantezza del suo stile e la ricercate levità della narrazione: è vero che l'Olocausto non c'entra una mazza, e se anche non è un appiglio per il Grande autore, allora perché evocarlo? Alla fine la leggerezza va benissimo per far cantare i Talking Heads da Sean Penn in un salotto (scena molto bella, lo ammetto), ma se alla prima sequenza newyorchese mi piazzi la strada, la camminata nella folla e la musica di Jonsi triste triste, indie indie, allora tanto leggero non sei.
RispondiEliminavero. ci sono stridori. non lo nego. anzi son lì che ti mordono il naso. Io però ho trovato ci fosse un azzardo fuori dall'autorialità: il registro comico grottesco inserito in composizioni così nitide e urlanti. Tanto per fare della blasfemia serale: Jarmush e Wes Anderson (lo so..lo so). Se anche non c'era compenetrazione tra i temi e la loro rappresentazione(stiamo sull'ingenuo) ci sono in This must be the place azzardi umani e formulazioni di sceneggiatura che ho trovato davvero, inusualmente, ben accordate. (però troppa musica insistente, anche se leggere nei titoli di coda i nomi di Will Oldham e Byrne è un piacere)
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