martedì 22 marzo 2011

"Il vero segreto è nel sale"

Ieri su La Repubblica Antonio Monda ha scritto la recensione di un volume da poco uscito negli Stati Uniti e dedicato alle attuali strategie dell'industria cinematografica hollywoodiana, The Hollywood Economist di Edward Jay Epstein. Siccome sulla sua pagina di Facebook Monda ha postato l'articolo per intero, lo copio e incollo qui sotto, perché è interessante e illuminante (o meglio, oscurante, visto le cose un po' tristi che dice a proposito del cinema contemporaneo). La cosa a cui proprio non avevo mai pensato è l'importanza del cibo venduto nelle multisale, il famigerato junk food che si sente sgranocchiare dal vicino, per le sorti degli esercenti, dunque dei distributori, dunque dei produttori, dunque dei film. Parafrasando la frase chiave di Rango, oggigiorno (e il perché lo spiega Epstein) che ci controlla il sale controlla il cinena. Buona (triste ma necessaria) lettura.

NEW YORK. Pochi mesi fa, un giovane produttore hollywoodiano portò una sceneggiatura alla Paramount. Si trattava di un progetto innovativo, avvincente e con dialoghi brillanti. Sull’onda dell’entusiasmo era riuscito a convincere due star di prim’ordine a partecipare al film, e si era assicurato un regista “bankable”,... cioè con un record impeccabile di pellicole di successo.

Pochi giorni dopo, il produttore venne convocato dal CEO della Paramount, che gli fece i complimenti e disse: “È un’idea straordinaria, peccato che non sia già stato fatto il film o non sia possibile farne il remake”. Il produttore rimase sconcertato, ma chi conosce Hollywood sa che non si tratta di una risposta sorprendente: gli studios oggi tendono a dare il via libera a quattro tipi di film: i remake, i sequel, gli adattamenti cinematografici di serie televisive o di videogiochi.

Questa vicenda rappresenta un elemento fondamentale di quanto racconta Edward Jay Epstein in The Hollywood Economist, un libro che consente di capire cosa conti realmente nel mondo di Hollywood, e quali siano le regole che governano la fabbrica dei sogni. Epstein parte da alcuni dati insindacabili: nel 2007 gli incassi complessivi degli studios ha raggiunto un totale di 42.3 miliardi di dollari, ma solo un decimo di quella somma è provenuta dai biglietti venduti al cinema. Tutto il resto viene dal “backend”: vendite dei dvd o via internet, merchandising, distribuzione nel mercato internazionale, pay tv e antenne televisive. Oggi nessun film potrebbe sopravvivere commercialmente con la sola distribuzione in sala, e l’unico effettivo valore di questo primo passaggio è quello di garantire una buona fama al film, e aspirare a vincere la battaglia per il primo week end, il cui premio è poter scrivere nei flani pubblicitari “il film n.1 del momento”.

Queste cifre si incrociano con un altro dato: nel 1929, anno del primo oscar, 95 milioni di americani andavano al cinema almeno una volta alla settimana, con una percentuale di quattro quinti della popolazione. Oggi è inferiore a dieci per cento. Thomas Stephenson, uno dei più importanti esercenti americani, spiega che dei 50 milioni di dollari che guadagna annualmente, solo 23 finiscono nelle sue tasche, a fronte di 31.2 milioni di spese vive. Il bilancio sarebbe in perdita se non fosse per la vendita degli snack all’interno dei cinema. Gli incassi del cibo si sono stabilizzati intorno ai 26.7 milioni, ed ovviamente ciò obbliga a scelte di film mirati sugli adolescenti e pubblicità sinergiche tra le pellicole e il cibo offerto. Una delle battute più illuminanti del libro è “il vero segreto è nel sale”, pronunciata senza ironia da Stephenson, il quale spiega come abbia incrementato gli incassi delle sale cinematografiche, e quindi dei film, aumentando la quantità di sale negli snack. Nei 25 maggiori incassi a partire dal 2000, il sesso è inesistente o molto blando: è questo il motivo per cui oggi è considerato un rischio e non un potenziale arricchimento. A ciò deve aggiungersi il cosiddetto fattore Wal-Mart: gran parte delle vendite dei dvd avviene nelle catene Wal-Mart, dove il cliente tipo è una donna conservatrice di mezza età che giudica severamente chi fa commercio di sesso esplicito. Per quanto riguarda i costi di produzione, un elemento fondamentale è l’assicurazione: sono numerosi i film entrati in crisi prima ancora delle riprese.

Famoso il caso di Nicole Kidman, che rischiò di far fallire la propria assicurazione dopo una lesione al ginocchio all’epoca di Moulin Rouge. Lunghe e inquietanti le descrizioni delle invenzioni contabili messe in atto dagli studios per aggirare il fisco ed evitare di pagare i “talents” con il compenso a percentuale sui guadagni del film. Il più scaltro e temuto negoziatore di Hollywood è Arnold Schwarzenegger, il quale, consapevole di essere indispensabile sul set di Terminator 3, ha imposto un contratto di 33 pagine che garantiva, oltre ad un compenso faraonico, la propria parte di guadagno prima di ogni altro, compresi i produttori. Il merchandising ed il product placement hanno portato ad aberrazioni non solo artistiche: in Natural Born Killer il produttore aveva stretto un accordo in base al quale avrebbe regalato due paia di stivali “Abilene” ad Oliver Sone e ad altri membri della troupe se un camion con l’effige del brand fosse passato in una scena. Ma la sequenza prescelta era complessa e comportò molte ore di ritardo, per una spesa di 300 mila dollari. È solo uno dei tanti passaggi sconcertanti di questo libro godibilissimo e illuminante, in cui Epstein continua a ribadire: Hollywood è il luogo dove si celebra l’arte degli affari, non l’arte del cinema.

Antonio Monda, La Repubblica, 21 marzo 2011.

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