martedì 15 febbraio 2011

L’ultimo film

Béla Tarr è uno dei più grandi registi viventi. Per certi versi, l’emblema degli incubi fantozziani relativi al cinema d’autore ancora oggi parecchio in voga: film rigorosamente in bianco e nero, pressochè muti e di durata ma inferiore alle due ore e venti minuti. Un mazzata, insomma. Ma una mazzata che può fare un gran bene. Al cinema e a chi lo guarda. Perché nei suoi film il tempo è durata vera, una presenza costante, ingombrante, e lo spazio una superficie mobile e aperta, più profonda di quanto un qualsiasi 3D potrà mai ottenere. Nel suo ultimo film, in concorso qui a Berlino, A torinói ló (Il cavallo di Torino), al centro della sua filosofia visiva ci sono un padre e una figlia: sono contadini dell’Ottocento, vivono di niente in una casa sperduta in una landa incessantemente battuta dal vento. Hanno un cavallo, ma non un cavallo qualsiasi, bensì il cavallo che Nietzsche abbracciò per le strade di Torino, prima di cadere in stato catatonico e morire dieci anni dopo. Di loro si occupa per la prima volta qualcuno, perché come dice la voce off all’inizio, dopo il celebre episodio non se ne è più saputo niente.

E il film parla proprio di questo, del buio della Storia che avvolge chi dalla Storia è rmasto fuori o non ha mai avuto diritto a farne parte. I due personaggi e l’animale dovrebbero essere contadini della campagna torinese, ma Béla Tarr abbandona qualsiasi riferimento storico e imbastisce lentamente, giorno dopo giorno nella vita dei suoi personaggi, la sua palingenesi al contrario, la sua distopia senza salvezza.

Non racconta, il grande regusta ungherese, ma raffigura, insiste sui particolari, sui gesti; quello che ricerca è il ritmo interiore della sua partitura, con i movimenti lenti della macchina da presa combinati in diversi piani sequenza e accompagnati da una colonna sonora in cui il rumore del vento si sovrappone a una musica minimalista immutabile, per creare un ipnotico effetto di cullante sobrieà.

La metafora è evidente, il buio, il vento, la siccità, la fame, il nulla insomma, avvolgono progressivamente i due protagonisti e il loro cavallo. La durata infinita delle scene, oltre a essere impostata sui ritmi della vita contadina di centocinquanta anni fa, è un controstoria rispetto all’evoluziona futura del ’900, l’opposto, cioè, dei quindici minuti di celebrità predicati da Warhol ottant’anni dopo l’episodio che vide coinvolti Nietzsche, un cocchiere e il suo cavallo testardo. Per chi non è entrato nel cono di luce della Storia, il destino è stato quello di oscurità totale, fin da subito, prima ancora che venisse al mondo, per secoli passati e per secoli a venire.

È così anche adesso, per tutti quelli che al massimo possono entrare a far parte di un aneddoto biografico: la Storia è una landa battuta da una tempesta perenne e il cinema di fronte al suo incessante rumore, se si sofferma a pensare a cosa può fare, non può che volgere al nero. Dicono che A torinói ló sia l’ultimo film di Béla Tarr: non farebbe un grinza.


3 commenti:

  1. Santo santo santo è Bela Tarr Dio della pellicola. Ti invidio, oggi ti invidio proprio, chissà se e come arriverà, a Novembre spero, come A London Ferfi, qualche anno fa, tanto più che adesso il titolo quasi lo impone.

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  2. La mia ragazza ha rinunciato a un weekend con me per volare a Berlino a vedere "A torinói ló". E ho detto tutto.

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  3. Senza parole ... Le ho inviato un'e-mail.
    Lidia Ianuario

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