lunedì 8 novembre 2010

La sobrietà dei grandi

In questi giorni Amos Oz sta girando il Piemonte tenendo conferenze ai ragazzi delle scuole e parlando liberamente della sua scrittura. La scusa è quella di un premio, la cornice quella dell'istituzionalità più becera, ma lui, Oz, è davvero un grande, parla con la saggezza lapidaria della sua scrittura, ha il fisico stanco di un uomo che si è fatto il mazzo (ha guidato trattori per trent'anni nel kibbut dove viveva) e gli occhi profondi di chi sa sempre cosa rispondere, di chi sa sempre cosa e dove guardare: per la precisione alle scarpe delle persone, come ha raccontato ieri durante un incontro ad Alba, in provincia di Cuneo, che poi è la città dove sono nato. Siccome ha detto un sacco di cose interessanti e l'ha fatto con ironia, adeguandosi al pubblico di studenti che aveva di fronte, senza tirarsela e concedendosi a ogni domanda, riporto qui sotto un po' di frasi: sono belle perché semplici, sobrie perché detto da uno che ha imparato tanto e ha ancora voglia di imparare.


«È bellissimo parlare davanti a una folla così grande, ma non dobbiamo dimenticare che un libro è sempre scritto in solitudine e che in solitudine è letto da ciascun lettore. Per arrivare ai suoi lettori il lavoro di uno scrittore deve passare per una strada rumorosa, tra presentazioni, interviste e recensioni: ma alla fine del viaggio c’è sempre l’incontro tra una solitudine e l’altra».

«Non conosco Fenoglio, purtroppo, e di Pavese ho solo letto La luna e i falò in traduzione ebraica, e l’ho trovato molto bello. Per quanto mi riguarda, sarò sempre grato a Sherwood Anderson e alla sua raccolta di racconti Winesburg, Ohio per avermi insegnato a rivalutare il legame con la mia terra».

«Se dovessi riassumere con una sola parola la mia produzione direi “famiglia”. E se dovessi aggiungerne un’altra, di parola, direi “infelice”. Se poi dovessi aggiungerne una terza, dovrei consigliare a tutti di rileggere i miei romanzi, che in fondo non parlano d’altro che di famiglie infelici, di persone nei panni delle quali mi sono sforzato di entrare per raccontare la realtà in tutta la sua complessità».

«Quando ero piccolo e accompagnavo i miei genitori nei locali dove loro chiacchieravano per ore con gli amici, avevo l’obbligo di stare buono in cambio di un gelato a fine giornata. Circondato da adulti e costretto al silenzio, non avevo altre risorse che spiare gli altri, guardare i loro vestiti, le loro scarpe, ascoltare le loro parole e osservare il loro linguaggio corporeo. È da lì che è nata la mia voglia di fare lo scrittore, dalle storie che inventavo e che ancora invento. Per me la curiosità è una virtù morale ed è tutt’ora la mia principale fonte d’ispirazione».

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