venerdì 3 settembre 2010

Venezia 67 .- III giorno (ancora Celestini e Sofia Coppola)

Oggi non ho molto tempo (e qui è piovuto nella sala stampa, per cui ora i computer sono dimezzati), allora copio un articolo che ho scritto.

Perché essere tristi, quando il si può sentire il calore del sole sotto la pelle? Perché avere il vuoto nel cuore, quando si può calpestare la terra coi piedi? Lasciate a noi il tristezza, a noi il vuoto, noi che non possiamo mai uscire da questo posto. Parafrasate, sono le parole che chiudono il bellissimo film di Ascanio Celestini, La pecora nera, che al momento rimane il miglior film visto al concorso della 67° Mostra di Venezia. In un certo senso potrebbero adattarsi anche al clima festivaliero che si respira qui, dove chiunque è affaccendato e di corsa, lo sport preferito è dire ripetere quanto si è stanchi e nessuno, forse, si ferma a pensare al privilegio. Come in tutti i grandi festival, anche Venezia nei dieci giorni della Mostra è un luogo chiuso che si apre al mondo intero: una contraddizione che è la ragione della sua durata. Qui si è fuori dal mondo e contemporaneamente al centro: per dieci giorni.

Chi invece è sempre confinato nel suo mondo è il matto di Celestini: il manicomio dove vive è un luogo “sacro”, chi vi è rinchiuso dei “santi” e il mondo là fuori, oltre il muro e i cento cancelli, una terra desolata dove l’unica realtà è un supermercato. Film mirabile, La pecora nera, un tratto dall’omonimo lavoro teatrale del suo autore, che ha il pregio riportare al cinema le medesime strutture del suo immaginario teatrale. La storia quasi non c’è, il film va avanti e indietro nel tempo ma è come se fosse perduto: in fondo, per i matti il tempo nemmeno esiste. Celestini reagisce alla violenza del mondo opponendo la sua parola imballata, capace solo di reiterare frasi, idee e pensieri; non celebra la follia e non racconta il mondo dalla parte dei matti, ma spostandosi fisicamente nel loro mondo, lui che matto un po’ lo è e un po’ no, chiede allo spettatore come riconoscere e come raccontare la follia. E colpisce, fa male, lascia il film senza troppi commenti, offre amore e in cambio riceve sgomento.

Lo stesso sgomento che attraversa Somewhere di Sofia Coppola, dallo scorso weekend uscito nelle sale italiane, nuova incursione nel vuoto fisico e morale del cinema dopo Lost in Translation. Raccontando la non-storia di un attore dissoluto che passa alcuni giorni con la figlia e capisce di aver sprecato la sua vita, la Coppola ritorna allo spaesamento e all’ironia del suo film più celebre. Ritornano anche l’immobilità dello sguardo e lo stupore ferito di fronte al costume appariscente e fasullo dello showbiz: la cosa buffa (e naturalmente triste) è che l’Italia a fare la figura peggiore, con l’attore protagonista premiato e umiliato in Telegatto da avanspettacolo che ha l’aria miserevole, tra le apparizioni oscene di Simonta Ventura, Nino Frassica, Valeria Marini e Laura Chiatti. Tutto scorre, niente rimane, la sola cosa ferma è la macchina da presa, che sola può concepire l’annichilimento interiore del personaggio. Niente di nuovo sotto il sole, ma la Coppola sa fare grande cinema, diverte e commuove con il suo minimalismo.

1 commento:

  1. e vaiiiiiiiiiiiiiiii celestini!!!!!!!!!!!!!!!!!
    GRANDE DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA!!!!!!!!!!!!!! DA QUANDO NON è PIU' IN COPPIA SEMBRA CHE ABBIA ESPLOSO DI PIU' IL SUO GRANDE TALENTO

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