Due per la strada, in fondo, è un film hollywoodiano di metà anni '60, quando gli americani giravano in tutto il mondo, usavano lo split screen o la frammentazione narrativa, ma non riuscivano in nessun modo a risollevare una storia che era ormai finita. La sensazione, a rivedere i film di quel periodo, è quella di un modo di raccontare, filmare e recitare che non sta al passo con le sue stesse immagini, che vince la scommesa del singolo film, ma perde quella del cinema come sistema di pensiero e visione del mondo.
La stessa sensazione l'ho provata quest'anno nel film di Scorsese, ma soprattutto in Invictus di Eastwood, che rispetto a Shutter Island non ha nemmeno la sofferenza della sfida intellettuale. Invictus ha la pelle tirata come la Hepburn di Due per la strada, è un film che cerca di mitizzare una realtà storica servendosi di un linguaggio che ha perso la sua funzionalità. Oggi c'è più mitizzazione della realtà nel Grande fratello di quanto ce ne sia in Invictus: non saprei dire perché a proposito della tv, ma per quanto riguarda il cinema posso dire che il cinema classico, il cinema del ralenti, del montaggio connotativo, della narrazione coerente, ha esaurito la sua spinta.
Invictus costruisce castelli dove non c'è più il terreno per farlo e ciò che resta a terra sono solo rovine. Eastwood rimane un grandissimo regista, ma come per Scorsese non dobbiamo più aspettarci di essere sorpresi dal suo cinema.
Naturalmente spero di essere smentito, ma l'impressione di oggi, 4 maggio 2010, è questa.
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