Ieri è uscito nelle sale Agorà di Alejandro Amenábar. E' un peplum, uno di quei film ambientati nell'antica Roma dove tutti hanno la tunica e dove al posto delle colonne di cartapesta di una volta ci sono Rachel Weisz e 50 milioni di euro. Cito a caso, ma a parte la serie Rome, non ricordo altri film sull'era classica negli ultimi trent'anni. Questo perché, evidentemente, non ce n'è bisogno.
Il genere risponde alla richiesta implicita di una società e se questa non ne vuole sapere di modelli mitici e radici storiche, ma pensa solo a paure contemporanee e ansie di conquista, allora non ha senso che film come Agorà riprendano forme di racconto che hanno esaurito la loro portata storica.
E se oggi l'horror va ancora (e andrà fino a quando continueremo a vergognarci di noi stessi) e il western non si chiama più western ma si chiama Avatar, un kolossal sulla filosofia del 300 dC, per quanto camuffato da blockbuster, rimane un'operazione puramente intellettuale. Infatti l'hanno affidata a uno bravo come Amenabar, che per il fatto di essere un "autore" dà una patente di rispettabilità altrimenti introvabile.
Naturalmente, poi, salta fuori che Agorà è un film di genere ma sa leggere la società di oggi, che il Vaticano lo voleva bloccare, che è divertente ma serio, che se vai a vaderlo spegni il cervello ma qualcosa resta dentro. Tutto vero. E pure tutto falso. Perché Agorà è la dimostrazione di quanto oggi il cinema non sia più un discorso spontaneo, ma una voce totalmente costruita; di quanto sia separato dalla realtà e non riesca più a porsi come forma di pensiero, ma solamente come immaginario che poggia su richieste inesistenti e costruite a posteriori.
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