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lunedì 10 settembre 2012

Free Spring Breakers




Giusto per confermare l'importanza di un film come Spring Breakers - che poi a me non è nemmeno piaciuto così tanto - a cui nessuno, ma proprio nessuno, può togliere lo status di film contemporaneo per eccellenza, nel tantissimo male che mette in scena e nell'altrettanto bene che potrebbe fare. Free Pussy Riot / Free Spring Breakers

domenica 2 settembre 2012

Venezia 69 - Dentro il vuoto

La sparo grossa, poi provo ad argomentare. The Master di P.T. Anderson è un film che sta un metro sopra The Tree of Life. Un film che trova il cinema laddove quell'altro, con tutte le sue cose meravigliose e tutte le sue cose pacchiane, finiva solo per rincorrerlo e ripeterlo. Sono due film completamente diversi, non faccio paragoni e non mi metterò qui a dire "questo ha questo e quello ha quello"... Ma nel tentativo di The Master di entrare nella testa dei suoi personaggi e provare ad aprirsi un varco nella loro follia, dentro un buco nero scavato dalla guerra, dalla paranoia degli anni '50, dall'idea che il passato sia l'origine di tutto, del male, del dolore, dell'ipnosi collettiva, da tutta questa materia incandescente realizza una trascendenza dell'immagine e del cinema stesso che, a mio parere, lo stile visionario ed espressionista di Malick mancava. Qui c'è qualcosa di più moderno e inatteso, c'è un regista più complesso e respingente di quanto vorremmo, non più l'Altman contemporaneo e nemmeno il nuovo Scorsese appassionato e appassionate. Un regista che ha scelto di distillare frammenti puri di un cinema classico fatto di corpi e di volti, di colori cupi e di controcampi senza un'evidente impronta stilistica. C'è soprattutto la presa di coscienza, finalmente (ed è qui che Malick secondo me fallisce), dell'impotenza dell'immagine di fronte alle profondità e al vuoto della mente.

venerdì 31 agosto 2012

Venezia 69 - L'immortalità dell'immagine

Uno ha un bel dire, no, non è possibile che tutto sia già stato fatto, che ogni cosa detta oggi si poteva dire meglio (o è stata detta meglio) trenta, quaranta, cinquanta anni fa, che il cinema rispetto al teatro o alla musica contemporanea, essendo un'arte relativamente giovane (ma purtroppo capace come nessun altra di invecchiare in fretta), ha la possibilità di dire cose nuove, di cercare in continuazione uno sguardo diverso, più attento, più curioso, meno filtrato, sulla realtà - e i festival in teoria proprio a questo servono, a verificare dove gli occhi sono freschi e voraci - uno ha un bel dire, insomma, che venire qui a Venezia sia come affrontare un corso di formazione, come gettare uno sguardo dal ponte, ma... Ma, porca vacca, quando poi, proprio mentre sei qui, in quello che in teoria dovrebbe essere il tempo presente assoluto del cinema, ti capita di vedere la copia restaurata dei Cancelli del cielo di Cimino nella sua versione originale, quella da quasi quattro ore, allora ogni discorso va a farsi benedire, allora ogni sguardo all'indietro diventa un gesto d'amore, la riscoperta di un respiro, di una potenza di messinscena che oggi sembra irrimediabilmente perduta, quasi fosse colpa, non dei registi, non dei film che si fanno, ma del cinema stesso, o più ancora colpa nostra, incapaci come siamo ormai di liberarci dalle immagini e quindi drammaticamente legati a esse, incapaci, ancora, di ammirarle e desiderosi solo di possederle. Vedere i Cancelli del cielo, è come cercare di comprendere il miracolo del cinema e dell'arte e ovviamente restare inappagati: il mistero che resta, però, è ciò che rende un film immortale. Oggi, forse, abbiamo bisogno proprio di questa immortalità dell'immagine, visto che le nostre, di immagini, le consumiamo nel giro di un secondo e poi ci rivolgiamo ad altro, se qualcosa ancora da fare o qualcosa da recuperare ancora non l'abbiamo deciso.