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sabato 17 dicembre 2011
Le idi di marzo (con qualche errore)
Con un po' di spocchia ma qualche ragione, la rivista The Atlantic se l'è presa a morte con Le idi di marzo di Clooney e in questi giorni non perde occasioni per stroncarlo. Prima ci ha pensato con la lista dei film più significativi dell'anno, scegliendo i Muppets come miglior film politico e precisando "no, no Le idi di marzo. Assolutamente, assolutamente no Le idi di marzo"; poi, dopo le nomination ai Golden Globe di due giorni fa, è arrivato un pezzo dal titolo che è tutto un programma ("Le idi di marzo non dovrebbe essere candidato a nessun premio, mai"), in cui punto per punto l'autore elenca le assurdità nella trama del film. Alcune sono clamorose (e, bisogna ammettere, evidenti non solo al The Atlantic), come ad esempio il fatto che il responsabile dalla campagna elettorale del principale candidato alle primarie del Partito Democratico non sappia di avere alle dipendenze la figlia del presidente del consiglio nazionale di quello stesso partito, oppure che questa stessa persona possa prelevare 500 dollari dal budget della campagna per far abortire la suddetta ragazza, senza minimamente preoccuparsi del fatto che qualcuno possa chiedergli ragione di quei soldi... Personalmente, sempre parlando delle assurdità nella trama di un film peraltro onesto e ben intenzionato, magari un po' sopravvalutato ma di certo figlio dei tempi in cui viviamo, disilluso di una disillusione ormai sdoganata anche tra i liberal, personalmente, dicevo, mentre vedevo il film mi chiedevo come fosse possibile che alla conferenza stampa di un candidato alle primarie del Partito Democratico si presenti l'ex responsabile del suo staff, licenziato in tronco il giorno prima, e nessuno lo noti o si accorga che sta guardando fisso e da lontano il suddetto candidato, tenendo vistosamente in mano un cellulare acceso. Va bene la condensazione narrativa per rendere il film avvincente, ma o sei Polanski in The Ghost Writer e allora va bene tutto purché la storia funzioni, oppure se hai qualche ambizione sociologica o politica le cose dovresti farle un po' meglio. Poi, certo, c'è Ryan Gosling, e allora almeno una scena in cui lui se ne sta con lo sguardo fisso a guardare il fuori campo, enigmatico e perplesso, come se sapesse sempre quello che fa mentre dà l'idea di non capirci un tubo, tanto fico e pure tanto star col fascino magnetico, allora una scena così la devi per forza fare, e quindi pazienza se insieme al resto ci sta un po' così...
venerdì 7 ottobre 2011
Ricatto estetico
Il problema di un film come Drive non credo dipenda del tutto dal suo regista, Nicholas Winding Refn, ma dalla ricezione che oggi se ne fa in quanto film fico e vintage, storia tosta, e dunque esente da mollezze minimaliste, e storia romantica, dunque carica di passione autentica. Drive è un concentrato di ficosità contemporanea, nostalgico e stilizzato, plastico e pop, con le sue citazioni postmoderne da Hill, Mann e Friedkin, con i suoi attori tosti e le sue attrici fragili, con le sue esplosioni di violenza e la slow motion, con la sua musica anni '80 spalmata su tutta la parte finale e in generale un senso di elegia della distruzione che ha sì il pregio di essere puramente cinematografico, ma ha pure la colpa di pretendere un'adesione che non può esistere se non come scelta consapevole e di riporto (ancora il noir come oggetto culturale? ancora Mann come modello visivo? ancora la notte di L.A. e le macchine fiammanti?). Per intenderci, Refn sa essere creativo pur essendo derivativo, ha un senso dell'inquadratura notevole e sa dislocare le figure nell'inquadratura in modo tale da creare legami prima di tutto visivi e solo in un secondo momento narrativi. Ma secondo me c'è qualcosa di calcolato e non così trasparente nel richiedere oggi al pubblico l'innocenza dello sguardo e al tempo stesso la consapevolezza: perché è proprio lì, in un'azione istintiva e calcolata, naif e vintage, dura e melancolica, la natura della passione contemporanea, che ha bisogno di vedersi assolta e mai messa in discussione. Un film come Drive evoca furori appassionati e amori disperati, gioca sull'adesione emotiva non del cuore, ma del ricordo, del pregresso, fondandosi in modo anche illuminante, anche folgorante, ma pur sempre furbesco, su un ricatto estetico al quale è difficile sfuggire. E parecchi - secondo me - ci cascano.
sabato 21 maggio 2011
Cannes 64 - Cinema della modernità
Torno dopo un giorno di assenza per parlare di Cannes e nello specifico di Drive di Nicholas Winding Refn, che è stato forse il film più apprezzato dalla critica italiana (l'unica che conosco bene e in parte frequento): un noir ambientato a Los Angeles con protagonista uno stuntmen che lavora come autista per la malavita. Vista la trama, cita naturalmente i classici postmoderni del genere, con Mann e Friedkin su tutti, e lo fa piuttosto bene, senza essere derivativo e senza sembrare pretestuoso, trasmettendo, anche grazie alla recitazione stupefatta e ironica di Ryan Gosling, l'energia distruttiva ed elegiaca di decine e decine di modelli cinematografici. Refn, inoltre, ha un senso dell'inquadratura notevole e soprattutto nei campi-controcampi (che sono la base del cinema classico) sa dislocare le figure in modo tale da creare legami primi di tutto visivi e solo in un secondo momento narrativi. Il film è bello, insomma, ma quello che convince meno è l'uso eccessivo che fa del ralenti e della musica eighties, dando vita a scene dilatate in cui i personaggi danzano in modo cadenzato e trasmettono un sentore di perdizione e malinconia che suona un po' come un ricatto estetico. I difensori dicono che per questo motivo, per la stilizzazione e per la libertà con cui sceglie le musiche, non si può non amare un film come Drive. Ma per lo stesso motivo si potrebbe dire esattamente il contrario, sospettando della presunta ingenuità cinefila di Refn e convincendosi della calcolata magnificenza plastica dello stile. Un po' come per Sorrentino, il cui This Must Be the Place è di parecchio inferiore a Drive ma ugualmente costruito su una ricercatezza stilistica che unisce lo stupore europeo per l'iconografia americana (in questo caso il paesaggio e non il cinema di genere) e la fa riverbare all'infinito attraverso il ralenti e il rimando musicale immediato (Arvo Part e Riceboy Sleeps). E' tutto cinema della modernità, dunque interessante e coinvolgente, ma pure cinema parecchio furbo. E quindi un po' di sospetto me lo mette (anche se magari poi su Drive cambio parere, non so).
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