venerdì 7 ottobre 2011

Ricatto estetico

Il problema di un film come Drive non credo dipenda del tutto dal suo regista, Nicholas Winding Refn, ma dalla ricezione che oggi se ne fa in quanto film fico e vintage, storia tosta, e dunque esente da mollezze minimaliste, e storia romantica, dunque carica di passione autentica. Drive è un concentrato di ficosità contemporanea, nostalgico e stilizzato, plastico e pop, con le sue citazioni postmoderne da Hill, Mann e Friedkin, con i suoi attori tosti e le sue attrici fragili, con le sue esplosioni di violenza e la slow motion, con la sua musica anni '80 spalmata su tutta la parte finale e in generale un senso di elegia della distruzione che ha sì il pregio di essere puramente cinematografico, ma ha pure la colpa di pretendere un'adesione che non può esistere se non come scelta consapevole e di riporto (ancora il noir come oggetto culturale? ancora Mann come modello visivo? ancora la notte di L.A. e le macchine fiammanti?). Per intenderci, Refn sa essere creativo pur essendo derivativo, ha un senso dell'inquadratura notevole e sa dislocare le figure nell'inquadratura in modo tale da creare legami prima di tutto visivi e solo in un secondo momento narrativi. Ma secondo me c'è qualcosa di calcolato e non così trasparente nel richiedere oggi al pubblico l'innocenza dello sguardo e al tempo stesso la consapevolezza: perché è proprio lì, in un'azione istintiva e calcolata, naif e vintage, dura e melancolica, la natura della passione contemporanea, che ha bisogno di vedersi assolta e mai messa in discussione. Un film come Drive evoca furori appassionati e amori disperati, gioca sull'adesione emotiva non del cuore, ma del ricordo, del pregresso, fondandosi in modo anche illuminante, anche folgorante, ma pur sempre furbesco, su un ricatto estetico al quale è difficile sfuggire. E parecchi - secondo me - ci cascano.

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