domenica 9 ottobre 2011

Restless

L'amore che resta, stupidissima versione italiana dell'originale Restless (chissà, forse hanno pensato che rest significa restare), è un esempio contemporaneo di melodramma hollywoodiano, argomento che come si vede qui a fianco mi è parecchio caro e che negli ultimi anni faccio fatica a ritrovare al cinema. Perché a Hollywood il melodramma, come in un certo senso era prima degli anni '50 (decennio che come si vede qui a fianco mi è parecchio caro), non viene praticato come genere a sé, sempre che sia un genere (e per questo rimando al primo capitolo del mio libro), ma come sottotraccia di altri racconti, altre storie, altre atmosfere. Il melodramma scorre undercurrent alla produzione mainstream, è un genere fantasma che alimenta altri generi. Van Sant lo riporta invece in superficie, ne affronta la dimensione malinconica e funebre con una storia di amore impedito dalla morte, una storia di fantasmi reali e fantasmi della mente, di funerali e di ospedali, di luoghi oscuri dove fare l'amore e altri alla luce del sole dove vivere la malattia. La bellezza di L'amore che resta sta nella sua semplicità: è un film indie al passo coi tempi, un teen movie fondato sull'estetica del carino, del minimale, del vintage, a partire dall'abbigliamento degli interpreti fino alla scelta della colonna sonora (i Beatles, Nico, Sufjan), che con la sua estetica un po' compiaciuta e un po' commovente - che in ogni caso ha proprio in Van Sant uno dei suoi creatori - restituisce come materia pura il soffio del cinema classico. Come un film classico è pieno di case, di oggetti, di inquadrature, luoghi e momenti di passaggio; e come film classico perfetto è una sorta di risarcimento per quei sentimenti universali e spesso banali - l'amore, la paura, la speranza - che nessun altra forma di rappresentazione ha raccontato in modo altrettanto sincero.

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