Prime impressioni su J. Edgar, a mio parere il miglior film di Eastwood dai tempi di Lettere da Iwo Jima. Senza star lì a far classifiche o distinguo, mi sembra che questa volta, pur senza trovare il passo dolente dei suoi capolavori (e nonostante un make up ridicolo), Eastwood abbia realizzato un nuovo capitolo, in un certo senso definitivo, parlando di Hoover, della sua personalissima storia della violenza americana. Raccontando la biografia del cratore del FBI, Eastwood va all'origine della questione, alla nascita, cioè, del sistema di controllo e repressione della criminalità nella democrazia americana. Hoover, come personaggio pubblico, è dato quasi per scontato, come se tutti, spettatori stranieri compresi, fossero a conoscenza della sua ambiguità, del disonore caduto su di lui dopo la morte e del fatto che l'America si vergogni di aver consegnato così tanto potere nelle mani di un uomo così meschino. A Eastwood in realtà interessano due cose: la gestione dell'informazione legata alla violenza e alla repressione, con la voce over di Hoover che gestisce i continui salti temporali del racconto, dando la sua versione della storia, salvo poi essere sconfessato dal suo collega (e forse amante) Clyde Tolson, che lo accusa di aver preteso tutta la gloria per sé e aver distorto i fatti; e la confluenza tutta americana, meglio ancora hollywoodiana, tra privato e pubblico.