Prime impressioni su J. Edgar, a mio parere il miglior film di Eastwood dai tempi di Lettere da Iwo Jima. Senza star lì a far classifiche o distinguo, mi sembra che questa volta, pur senza trovare il passo dolente dei suoi capolavori (e nonostante un make up ridicolo), Eastwood abbia realizzato un nuovo capitolo, in un certo senso definitivo, parlando di Hoover, della sua personalissima storia della violenza americana. Raccontando la biografia del cratore del FBI, Eastwood va all'origine della questione, alla nascita, cioè, del sistema di controllo e repressione della criminalità nella democrazia americana. Hoover, come personaggio pubblico, è dato quasi per scontato, come se tutti, spettatori stranieri compresi, fossero a conoscenza della sua ambiguità, del disonore caduto su di lui dopo la morte e del fatto che l'America si vergogni di aver consegnato così tanto potere nelle mani di un uomo così meschino. A Eastwood in realtà interessano due cose: la gestione dell'informazione legata alla violenza e alla repressione, con la voce over di Hoover che gestisce i continui salti temporali del racconto, dando la sua versione della storia, salvo poi essere sconfessato dal suo collega (e forse amante) Clyde Tolson, che lo accusa di aver preteso tutta la gloria per sé e aver distorto i fatti; e la confluenza tutta americana, meglio ancora hollywoodiana, tra privato e pubblico.
Fin dal titolo, infatti, si capisce che J. Edgar non è un biopic storico, bensì privato, quasi intimo, con la personalità gigantesca e al tempo stesso minuscola di Hoover a filtrare ogni evento. La metafora di Eastwood è tanto affascinante quanto pericolosa: come il povero Edgar, insicuro, balbuziente, solo, forse consapevole di essere omosessuale, una "gerbera" come gli dice la madre, è riuscito a controllare le sue pulsioni, a "essere forte" come si ripete di continuo, tenendo a freno gli istinti e lottando per il sopravvento della razionalità, così gli Stati Uniti hanno soffocato la propria wilderness, il proprio naturale spirito rivoluzionario, violento o emancipatore, salvo esprimerlo nel cinema, nella celebrazione ambigua della criminalità o della repressione autoritaria operata da Hollywood e dallo stesso Eastwood in diversi momenti della sua carriera.
In questo confusione di valori tra vita privata e gestione pubblica (che riguarda Hoover ma in realtà lo stesso Eastwood) stanno la forza, così come l'ambiguità e la fragilità di J. Edgar. In fondo lo dice anche il John Ford di Alba di gloria, quando - cito a memoria - durante la gara di tiro alla fune mostra il giovane Abramo Lincoln barare spudoratamente e vincere solo dopo aver legato a un carro la propria estremità di corda. Ciò che nel privato è concesso, nel pubblico va rinegoziato: la questione aperta da Hoover riguarda proprio il prezzo di quella negozazione. Quanto, insomma, il potere democratico degli Stati Uniti sia stato in grado di barare al gioco o di lottare contro l'illegalità e la violenza rispettando i propri principi.
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