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sabato 14 gennaio 2012

Il futuro è femmina

Presentando il suo primo film da regista, La kryptonite nella borsa, Ivan Cotroneo ha dichiarato di aver voluto dare un'immagine realistica degli anni '70, con la fotografia, le scenografie e i costumi che "raccontassero la modestia di quegli anni, senza nostalgia o rimpianto". Poi vedi il film, e pensi che l'abbiano scritto guardando le repliche di Anima mia di Fazio, così rétro e camp e vintage da non farsi mancare nulla, né David Bowie né i  colori sgargianti che fanno tanto ironia. Ti chiedi, insomma, come potrebbe essere, oggi, una rappresentazione realistica degli anni '70. Poi vedi La talpa, tratto da un romanzo del 1974 di John Le Carrè, e capisci che non è possibile, oggi, rappresentare realisticamente gli anni '70. Se i colori non sono pop, sono ocra; se i vestiti non sono a zampa, sono sciancrati; se le acconciature non sono da era dell'acquario, sono cotonate. Eppure in La talpa, che è un ottimo film di psicologie prima ancora che di intrighi spionistici, la rappresentazione del passato funziona per la sua opacità, grazie alla leggerezza del digitale che sfuma la ricostruzione storica e annebbia lo sguardo nella dimensione del ricordo cinematografico, non in quello della cultura mediatica. Anche questo è un film al passo coi tempi, in cui la nostalgia rischia di prendere il sopravvento. Ms la scritta che si legge più di una volta sul muro adiacente la sede dei servizi segreti inglesi, "The future is female", è il segno di ciò che Alfredson pensa di questo passato offuscato dal sogno: un mondo di soli uomini che sarebbe svanito da sè, sparendo nella nebbia della storia.

venerdì 13 gennaio 2012

Schiavi del XX secolo

Oggi escono Shame di Steve McQueen e La talpa di Tomas Alfredson, entrambi presentati alla scorsa Mostra di Venezia. Comincio con il primo, che trovo un film profondamente inutile, ma proprio per questo perfettamente al passo coi tempi. Certo, McQueen l'altra volta ha fatto un film riuscito, Hunger; certo, c'è Fassbender che lo mette in mostra e c'è pure la Mulligan che canta New York New York (per molti un momento di grande cinema, per me uno strazio canoro degno di Amici). Certo, Shame è un prodotto che fa un sacco figo, che fa sentire dei duri perché parla di sesso come dannazione, perché è girato a New York, e in fondo siamo tutti un po' newyorchesi, e perché è interpretato da attori cool, ma con una perenne espressione malinconica che li fa somigliare a noi mortali... Soprattutto, Shame è un film vecchio e inerme: ma, ripeto, è per questo un film significativo. Ecco perché quando mi hanno chiesto di scriverne per la rivista Panoramique, ho cercato di concentrarmi sui suoi aspetti interessanti e non su quelli che mi fanno incazzare. Ecco cosa ne è venuto fuori (se vi va).

Nel precedente film di Steve McQueen, chiamato Hunger e ispirato alla vicenda di Bobby Sands, il detenuto dell’IRA che nel 1981 intraprese fino alla morte uno sciopero del cibo e dell’acqua, la fame era un simbolo di estremo rigore esistenziale. La richiesta di un riconoscimento politico per i detenuti politici irlandesi diventava un’invocazione di liberazione spirituale, con l’uomo pronto a sostituirsi all’icona sofferente di Gesù Cristo. In Shame quella stessa fame diventa un appetito animale insaziabile; ed è il sesso, non più la moralità delle scelte individuali, a farsi terreno di confronto tra l’uomo e la realtà.